Il Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI" esprime ai familiari e a tutti coloro che lo hanno conosciuto, il più profondo cordoglio per la morte del Prof. Luciano Gallino, Professore Emerito di Sociologia dell'Università di Torino. Il Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI" ha avuto più volte occasione di incontrarlo, presso il suo ufficio nella Facoltà di Sociologia all'ombra della Mole Antonelliana, ed averlo ospite nei propri convegni come ad esempio in quello del 23 febbraio 2006 su "Un progetto per rispondere al declino industriale, alla crisi
occupazionale, all’attacco al mondo del lavoro” o quello del 28 maggio 2009 su "Crisi economica, crisi industriale, crisi sociale e i lavoratori". Il Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI" ha avuto modo di apprezzare, non solo attraverso i suoi numerosi libri e scritti, direttamente la sua onestà intellettuale, la sua indipendenza e serietà di studioso, la sua capacità di analisi e il suo acume nel cogliere tutti i risvolti dei cambiamenti nell'economia e nella società, la sua coerenza e il suo contributo ad indicare strade alternative contrastando la subordinazione e l'appiattimento al pensiero unico. Abbiamo sempre apprezzato la sua battaglia contro "la scomparsa dell'Italia industriale", le sue proposte ed idee per il lavoro e dalla parte dei lavoratori, la sua umanità. Nel salutarlo per l'ultima volta e nel riaffermare la nostra profonda stima, per ricordarlo pubblichiamo qui di seguito alcune foto tratte dal nostro "album" e in un altro post la sua relazione al nostro Convegno del 2006 ed a quello del 2009, Ciao Professore !!!
Luciano Gallino, Milano 28 maggio 2009 Convegno su "Crisi economica, crisi industriale, crisi sociale e i lavoratori"
Milano 28 maggio 2009 Convegno su "Crisi economica, crisi industriale, crisi sociale e i lavoratori" da sx Luciano Gallino, Joseph Fremder,Osvaldo Pesce
Luciano Gallino , Milano 28 maggio 2009 Convegno su "Crisi economica, crisi industriale, crisi sociale e i lavoratori"
Milano 28 maggio 2009 Convegno su "Crisi economica, crisi industriale, crisi sociale e i lavoratori" da sx Luciano Gallino, Joseph Fremder,Osvaldo Pesce, Piergiorgio Tiboni
il nostro ultimo incontro con il prof. Luciano Gallino, nel suo ufficio a Torino, 23.01.2014 da sx : Osvaldo Pesce, Carlo Parascandolo, Luciano Gallino
in memoria del Prof. Luciano Gallino, pubblichiamo qui di seguito la Relazione da lui tenuta sul tema: "SUL DECLINO INDUSTRIALE E SUI MODI PER USCIRNE" al Convegno organizzato dal Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI" a Milano il 23 febbraio 2006 e il video della Relazione da lui tenuta sul tema: "CRISI ECONOMICA, CRISI INDUSTRIALE, CRISI SOCIALE E I LAVORATORI organizzato dal Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI" a Milano il 28 maggio 2009
"Un progetto per
rispondere al declino industriale,
alla crisi occupazionale,all'attacco al mondo del lavoro"
Convegno tenutosi a Milano il 23 febbraio 2006
Sala Auditorium 1S – Consiglio Regionale della
Lombardia
Prof.
Luciano GALLINO
Professore Emerito di Sociologia
Università di Torino
SUL DECLINO INDUSTRIALE E SUI MODI PER
USCIRNE
In
tema di declino industriale dell’Italia circolano da tempo, nei media ma
anche nella letteratura specialistica,
varie affermazioni che si possono compendiare come segue: 1) Il declino,
in realtà, non esiste; 2) quel che sembra un declino è, semmai, una
trasformazione del sistema produttivo nazionale; 3) il fatto che l’industria italiana sia per metà in mani
straniere non è un segno di declino: l’importante è che la produzione continui
a svolgersi nel nostro paese; 4) anche se l’industria manifatturiera dovesse
scomparire non importa: il futuro appartiene ai servizi.
Per ciascuna di tali affermazioni esporrò
sinteticamente le ragioni per cui mi pare che esse non poggino su basi solide,
ovvero siano idee ricevute. Da ultimo
dirò perché, a mio giudizio, le proposte delineate finora in sede governativa
per contrastare il declino e rilanciare la competitività sfiorano appena, in
pratica, la superficie del problema.
1) Tra i segni di declino che non si possono
ignorare vanno collocati la crescita esigua del Pil, che dopo essere stata
minima per anni è passata al negativo nel quarto trimestre 2004 (- 0,4%) e nel
primo trimestre 2005 ( - 0,5 secondo l’Istat, - 0,6 secondo l’Ocse), per
riportarsi a fine anno vero lo zero; la
stagnazione o la diminuzione della produzione industriale in quasi tutti i
principali comparti, in media – 0,5 al trimestre; la diminuzione in un decennio di oltre un
punto e mezzo della quota italiana delle
esportazioni nel mondo, dal 4,6 al 3% in termini reali.
Parecchi altri indicatori sono disponibili.
Ad esempio, tra le 2000 società più importanti del mondo classificate secondo
un indice che combina vendite, utili e valore in borsa, pubblicata da “Forbes”
nel maggio 2005, l’Italia vi compariva con sole 45 società, contro le 63 della
Germania, le 62 della Francia e le 140 del Regno Unito. Per tacere di paesi che
hanno tra un quarto e un ottavo della nostra popolazione - Olanda, Svezia,
Svizzera – e però erano presenti nello stesso gruppo con un numero di gruppi
economici di poco inferiore al nostro. La
Svizzera, per dire, con i suoi sette milioni di abitanti, portava in
detta classifica ben 37 società. Parecchie delle quali, si noti, sono grandi
gruppi industriali.
Nello stesso senso depongono le serie
storiche. “Business Week” pubblica ogni anno un’altra classifica, quella delle
Global 1000, ordinate in questo caso per valore di mercato. In essa si scopre
che nel 2000 le società italiane erano presenti in 31; nella edizione
aggiornata al maggio 2004 erano scese a 23. Tra
queste i gruppi industriali erano in minoranza, e molti si situavano
intorno al 750° posto o al disotto. In tale posizione si trovavano Edison,
Luxottica, Fiat e Finmeccanica.
Sempre da un punto di vista storico o
diacronico va ricordato che negli ultimi lustri sono scomparsi, o sono vistosamente deperiti, interi settori
industriali, senza che nessun altro sia emerso di dimensioni sufficienti a
compensare il loro peso nell’insieme dell’economia. A causa delle “guerre
chimiche” degli anni ’70 e ’80, che hanno visto via via come protagonisti
Montecatini, Montedison, Enichem ecc., è scomparsa in Italia la grande
industria chimica. La produzione in grande serie di personal computer, nella quale la Olivetti
aveva occupato posizioni di leader europeo dopo essere stata la prima al mondo
a lanciarli sul mercato – nel lontano 1965 -
è cessata formalmente nel 1997. Per fortuna l’industria automobilistica,
che in Italia vuol dire soltanto Fiat, appare oggi emergere dalla crisi, ma va
ricordato che al presente si batte per riconquistare il 7% del mercato europeo,
laddove un decennio fa si batteva per mantenere
quota 18%.
Per documentarsi sul declino industriale
sono inoltre disponibili gran numero di rapporti sullo stato della economia
italiana che escono da centri di ricerca europei, sia pubblici che privati.
Nell’insieme essi dicono in sostanza, con equilibrio e ricchezza di dati, che
la mancanza di competitività dell’economia italiana è dovuta a serie debolezze
strutturali. La prima delle quali è che il 95% delle imprese italiane hanno
meno di 10 dipendenti, per cui non sono
in grado di fare né ricerca e sviluppo ad alto livello, né formazione del
personale.
2) Affermare che l’industria italiana non
soffre di declino, bensì si è trasformata, può significare almeno tre cose
diverse. Che certi settori dell’industria sono effettivamente scomparsi, però
(a) ne sono emersi altri che prima non
esistevano, o erano di peso modesto. Oppure (b) che uno stesso settore si è
differenziato al suo interno, e sebbene continui a venir designato con il
medesimo nome produce bene e servizi differenti rispetto a prima. Infine (c) la
stessa affermazione può voler dire che un intero settore o comparto
industriale, caratterizzato un tempo dalla presenza di poche grandi imprese, si è frazionato in gran numero
di imprese piccole e medie. In complesso
quel tale settore o comparto continuerebbero a prosperare, ma le dimensioni
delle sue principali imprese,
essendosi ridotte, fanno sì che il medesimo sia diventato
invisibile, o quasi, ai tradizionali metodi di misurazione delle attività
economiche.
Riguardo ai primi due modi di concepire le
trasformazioni dell’industria, le statistiche internazionali non offrono in
verità molti appigli per sostenere che l’industria italiana, indossate nuove
vesti, goda tuttora di buona salute. Si veda
il precitato elenco delle Global
1000, le prime mille società del mondo
classificate in base al loro valore di mercato, pubblicato ai primi di agosto
2004 da “Business Week”. La prima cosa che salta all’occhio in tale elenco è
che tra le prime 50 ben 36 sono società o gruppi industriali, e industriali
sono le prime quattro: General Electric, Microsoft, Exxon e Pfizer.
Il primo gruppo italiano in classifica è
l’Eni, al 37° posto, con un buon avanzamento rispetto al 2003 quando era 50°. Tra l’86° e il 105° posto si collocano
Enel, Tim e Telecom Italia (che però, dopo la incorporazione di Tim, appare in
posizione più alta nella analoga classifica del 2005). Dopodiché per trovare
altre imprese industriali italiane – mi riferisco sempre all’elenco di
“Business Week” dell’agosto 2004 - occorre scendere verso il 750° posto, dove
stanno fianco a fianco Edison e Luxottica. Saltando un altro centinaio di
scalini verso il basso si incontrano finalmente il gruppo Fiat (841°) e
Finmeccanica (850°, con un forte balzo all’ingiù perché nel 2003 l’analogo
rapporto la poneva al 669°). Queste imprese italiane sono strette, in tale
classifica, fra un folto gruppo di
corporations non appartenenti, parrebbe, ai primi paesi industriali del mondo.
Sono infatti imprese spagnole, canadesi, taiwanesi, tailandesi, messicane.
Che cosa si può ricavare dal suddetto
elenco a favore dell’ipotesi che l’industria italiana non declina,
bensì va trasformandosi? Piuttosto
poco. La sola novità – per quanto
significativa - è rappresentata dal gruppo
Luxottica, diventato il primo produttore mondiale di occhiali. Il suo valore di
mercato era al maggio 2004 più elevato del gruppo Fiat – 7,3 miliardi di
dollari rispetto a 6,4 - ma le sue vendite erano diciassette volte minori: 3,4 miliardi di dollari contro 57,7 nel
2003. In altre parole, ci vorrebbero in Italia altre diciassette novità come
Luxottica per pareggiare i volumi di vendita, e quelli correlati di produzione
e di occupazione diretta e indiretta, dell’ultimo grande gruppo manifatturiero
che esista ancora in Italia.
In sostanza, dall’elenco di “Business
Week” il quadro che si evince
dell’industria italiana a metà 2004 appariva così connotato: tolte le prime
quattro (Eni, Enel, Tim e Telecom Italia), le altre cinque si collocavano verso il fondo della
classifica, dietro a centinaia di società appartenenti a paesi più piccoli o
meno sviluppati dell’Italia. Per di più in una prospettiva comparata le imprese
industriali italiane erano scarse:
appena 9 sulle 23 società incluse nell’elenco, una minoranza, mentre quelle
britanniche sono 40 o più su 73, le
francesi 32-33 su 44, le tedesche 23 su 35.
Infine le nove imprese industriali italiane
producevano precisamente i beni ed i servizi descritti dalla loro ragione
sociale, più o meno come hanno fatto sin dalla nascita. Detto altrimenti,
esse non appaiono essersi trasformate
affatto, nel senso di avere costituito entro
di sé sotto-settori che a fronte di una crisi di lungo periodo delle
produzioni tradizionali assicurerebbero comunque la sopravvivenza e la crescita
del gruppo. Salvo voler considerare rivoluzionario il fatto che l’Enel abbia
una consociata telefonica, o salvifico per il gruppo Fiat avere acquisito delle
partecipazioni in campo energetico.
Che cosa resta dunque a sostenere l’ipotesi
che l’industria italiana “non declina ma si trasforma”? A suo favore si osserva
da varie parti che le imprese industriali italiane sono ormai quasi tutte delle
piccole-medie imprese, nessuna delle quali ha una stazza sufficiente per
entrare nell’elenco delle Global 1000 di “Business Week”, o in quelle simili
redatte annualmente da “Forbes”, “Fortune”, “Financial Times”, o Standard &
Poor’s. Il che equivale a dire che
l’industria italiana c’è, ed è solida, ma le sue unità hanno – volutamente e
felicemente - dimensioni troppo limitate per poter essere captate dalle grezze
lenti delle classifiche internazionali.
Da tale richiamo segue però una stravagante
implicazione. L’Italia sarebbe l’unico paese al mondo il quale insiste a
definirsi industriale non avendo più
imprese industriali che siano capaci di far ricerca e sviluppo su larga scala;
di reggere alla concorrenza internazionale grazie alla novità ed alla qualità
dei suoi prodotti, piuttosto che alla
compressione del costo del lavoro; e di mantenere in mano propria, piuttosto
che consegnare nelle mani di gruppi economici di altri paesi, i centri di
governo delle loro attività.
3) Negli ultimi due o tre anni si sono
susseguite notizie relative alla chiusura o al ridimensionamento di aziende o
stabilimenti controllati da
multinazionali straniere, con la perdita immediata o prevedibile per il
prossimo futuro, in complesso, di migliaia di posti di lavoro. Tra le decine di casi del genere si possono
ricordare l’Embraco nel torinese, controllata dall’americana Whirlpool; la Tecumseh, anch’essa in
Piemonte; le acciaierie del magnetico di
Terni controllate dalla tedesca ThyssenKrupp; stabilimenti della Zanussi in
diverse regioni facenti capo alla svedese Electrolux. Sono segnali di una situazione del tutto
anomala che caratterizza la nostra industria. L’Italia è infatti il solo paese
Ue in cui circa la metà dell’industria chimica; della farmaceutica;
dell’alimentare, dove la quota delle società straniere ha superato il 50% con
la recente acquisizione della Galbani da parte della francese Lactalis;
dell’elettrotecnica di gamma alta; degli elettrodomestici; della telefonia
mobile ecc. è controllata da imprese estere. Anche la siderurgia ha imboccato
tale strada, con la recente cessione delle acciaierie Lucchini ai russi della
Severstal.
Non mancano coloro che a fronte di tale
situazione avanzano rassicurazioni asserendo che quel che accade non è altro
che un effetto della globalizzazione,
ovvero della mondializzazione, come si preferisce dire in Francia. Gli
stabilimenti che chiudono in Italia per mano di gruppi che hanno sede
principale all’estero – si afferma - sono via via compensati da altri che
vengono aperti da imprese straniere. Queste ultime recano con sé sviluppo,
tecnologia, inserimento in più ampi circuiti dell’economia internazionale. Al proposito un economista è giunto a
scrivere che è meglio essere una colonia benestante piuttosto che un paese
indipendente ma povero. Nel contempo le
imprese italiane si andrebbero
consolidando, aprendo numerose unità produttive all’estero.
L’evidenza disponibile suggerisce, al
contrario, che l’Italia riceve dall’estero pochi investimenti, e ne effettua
ancor meno in altri paesi. Nel 2003 essa ha ricevuto appena 16,4 miliardi di
dollari di investimenti diretti all’estero (IDE), e ne ha effettuati la miseria
di 9,1. La Francia ne ha ricevuti quasi
tre volte tanti, 46,9 miliardi di dollari, e ne ha effettuati quattro volte di
più, cioè 57,2 miliardi. E con una popolazione quattro volte minore di quella
italiana l'Olanda ha largamente battuto la penisola nei flussi di IDE, sia in
entrata, con 19,6 miliardi di dollari, sia in uscita, con ben 36 miliardi.
Inoltre, come avviene da tempo, gli
investimenti ricevuti dall'Italia non sono stati in quasi nessun caso del tipo green field (“campo verde” o pré vert), i quali consistono nella apertura dal nulla di nuove unità produttive, con
relativa creazione di posti di lavoro addizionali. Sono consistiti
semplicemente nell'acquisto di aziende già in attività, con effetti minimi, e
talora negativi, sull'occupazione.
Sembrerebbe quindi che aver passato nelle
mani di imprese estere quasi metà dei suoi principali settori industriali abbia
portato in casa, all’Italia, il peggio della globalizzazione, cioè la
dipendenza da soggetti economici lontani e irresponsabili; un avvìo, in altre
parole, allo stato di un paese che rischia di essere, al tempo stesso, sia
colonizzato che povero.
4) Ad onta degli apologeti del
post-industriale e della società dei servizi, che a vero dire da qualche tempo
sembrano meno numerosi, l’industria
manifatturiera rappresenta tuttora, e continuerà ad essere nei prossimi
decenni, un settore assolutamente
centrale dell’economia contemporanea.
Chi insista sul fatto che l’occupazione nell’industria è scesa grosso
modo, ovviamente con notevoli variazioni da un paese all’altro, dal 30-35% al 15% in pochi decenni, e su questa base formula una diagnosi di scomparsa
dell’industria nei paesi sviluppati, è vittima per forse tre quarti di un
abbaglio statistico.
Un documento della Commissione Europea del
2002, avente per oggetto “La politica industriale in un’Europa allargata”,
coglieva bene il problema. In una sezione dedicata a “L’industria come fonte
della ricchezza in Europa” si leggeva infatti: “In anni recenti la struttura
produttiva europea ha subito notevoli trasformazioni. La quota del settore dei
servizi nella produzione dell’UE è passata dal 52% nel 1970 al 71% nel 2001,
mentre nello stesso periodo la quota dell’industria manifatturiera è diminuita
dal 30% al 18%.” … Per effetto di questa “terziarizzazione” i responsabili
politici non hanno riservato sufficiente attenzione all’industria
manifatturiera, sulla base della diffusa
ma erronea convinzione che nell’economia basata sulla conoscenza e nella
società dell’informazione e dei servizi l’industria manifatturiera non svolga
più un ruolo essenziale…(enfasi nel testo).”
Simile sottovalutazione del peso reale
dell’industria si deve al fatto che “le imprese manifatturiere – precisa il
documento della CE - hanno esternalizzato funzioni ritenute non essenziali, che
in precedenza erano calcolate come parte del settore manifatturiero. La sua
accresciuta domanda intermedia di servizi ha contribuito all’aumento della
produzione di servizi alle imprese, che nel 2000 rappresentavano il 48,3% del
Pil della Ue a 15.” A conti fatti, lungi
dal diminuire in conformità al teorema del post-industriale, tanto la quota
complessiva sul Pil del valore aggiunto
dell’industria manifatturiera e dei servizi alle imprese, che in gran
parte sono diretti proprio ad essa, quanto la quota complessiva
dell’occupazione nei due settori, sono
aumentati tra il 1991 e il 1999 nei paesi Ue: dal 66,4 al 68% per quanto
riguarda il valore aggiunto di manifattura e servizi all’imprese, e dal 57,9 al
58,4% per quanto attiene all’occupazione dei due settori sul totale degli
occupati.
Da tali dati ne segue che al centro di
qualsiasi politica industriale dovrebbero essere tuttora collocati i problemi
della industria manifatturiera. Quella appunto che in Italia rischia di
scomparire. Con possibile grave danno
anche per il settore dei servizi, visto che due terzi di essi sono
richiesti dall’industria.
Posto che il declino industriale dell’Italia
sembra davvero esistere, si tratta di vedere come si potrebbe uscirne. Un
primo passo dovrebbe consistere nel
farsi venire delle idee in tema di politica economica e industriale. Un secondo
passo, altrettanto indispensabile,
starebbe nel predisporre i mezzi per attuarle. E qui la strada si
presenta davvero impervia. Le idee al riguardo non nascono dal nulla. Nascono –
così accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna – da un dialogo
sistematico e permanente tra ministeri, enti territoriali, atenei, istituti di
ricerca scientifica e tecnologica pubblici e privati, sindacati, associazioni imprenditoriali,
unioni professionali.
E’ un dialogo diretto a far emergere quali
sono i punti di forza e di debolezza di un’economia, e quali sono gli spazi in
cui concentrare le risorse disponibili per avviare poli tecnologici e reti di
sviluppo con elevati livelli di integrazione verticale e orizzontale, ossia
interna ed esterna. Spiace dirlo, ma i duecento distretti industriali
italiani - sulle cui virtù miracolose sono
stati molti a
illudersi – al confronto con meraviglie industriali come il polo
aeronautico di Tolosa, la Optics Valley a sud-est di Parigi, o il distretto biotecnologico dell’area di
Monaco di Baviera, appaiono, forse con una dozzina scarsa di eccezioni, in
ritardo di vent’anni.
Qui si tocca un punto critico per una nuova
politica industriale. Probabilmente l’Italia non avrà mai più delle grandi
imprese con decine di migliaia di addetti, come aveva in passato. Ma poiché le
grandi imprese sono indispensabili per fare ricerca e sviluppo, per realizzare
economie di scala, per stabilire rapporti di partecipazione con imprese di peso
economico e tecnologico paragonabile, è necessario sviluppare delle imprese distribuite sul territorio, dove un
numero elevato di PMI operino come se fossero reparti o consociate di un
singolo gruppo economico, raggruppate in poli
tecnologici di rilevanti dimensioni.
Occorrerebbe pertanto far crescere in tale direzione un certo numero di
distretti italiani, selezionati tra quelli che presentano al riguardo le caratteristiche più idonee. Tali
sistemi produttivi dovrebbero rispondere a quattro condizioni principali: 1) un
polo tecnologico si costruisce sulla base di uno o più progetti tecnologici e
industriali di larga scala e a lungo termine, cui partecipano mediamente da
alcune decine a centinaia di attori collettivi differenti, concentrati in una
specifica area territoriale. 2) Il progetto o i progetti alla base di un
sistema produttivo centrato su tecnologie e processi industriali ad alto valore
aggiunto presuppone in ogni caso una scelta preliminare degli specifici settori
tecnologici in cui dovranno necessariamente rientrare. E’ qui dove l’Italia in
generale è più carente, come risulta anche da iniziative recenti del Ministero
delle Attività produttive e del Miur. Anziché scegliere i settori di
intervento, si propongono finanziamenti a pioggia, fidando nel mercato
affinché, in seguito, faccia emergere i più meritevoli. Mentre in Francia, con
un solo anno di preparazione, nell’ottobre 2005 sono stati creati 55 nuovi poli
tecnologici ciascuno dei quali è stato selezionato sulla base del progetto
preliminare presentato. 3) In un sistema produttivo innovativo debbono essere
obbligatoriamente presenti sin dall’inizio, in una relazione di effettiva
prossimità, almeno quattro tipi di attori: PMI, imprese sussidiarie di gruppi
multinazionali, società di servizi;
centri di ricerca e sviluppo pubblici e privati; enti di formazione,
dagli istituti professionali all’università; associazioni economiche e
professionali. E’ evidente che solo una
robusta politica industriale sarebbe capace di realizzare le suddette
condizioni.
Una simile politica industriale nel nostro
paese è assente non già perché manchino tecnici, scienziati, imprenditori e
lavoratori di prim’ordine, e nemmeno pubblici amministratori. Piuttosto perché
manca – per tornare al secondo passo che appare necessario allo scopo di uscire
dal declino – sia l’iniziativa che una idonea
strumentazione organizzativa da parte del governo e dello stato. Se mai
venissero elaborate, quelle tali idee di politica economica, avrebbero bisogno
di organi operativi per essere tradotte in realtà.
Ma quali ministeri potrebbero operare in
Italia a tale scopo, con i propri mezzi o inventando nuove forme di
organizzazione? Il ministero dell’Economia gestisce il patrimonio di cui lo
stato è ancora proprietario con lo spirito imprenditoriale di un amministratore
di condominio. Basti pensare alla vicenda Alitalia, alla cui crisi decennale il
ministero ha semplicemente assistito, anche quando controllava ancora il 100%
del capitale. Il ministero delle Attività Produttive si articola in ben 11
direzioni generali, di cui una sola, la
Direzione generale per lo sviluppo produttivo e competitività, include tra le sue competenze la “elaborazione
ed attuazione ed interventi di politiche industriali nazionali e
internazionali”, insieme con – letteralmente – decine di altre competenze.
Ancora nella vicina Francia si osserva invece come, a sottolineare l’importanza
che ad essa viene attribuita nell’organigramma ministeriale, la politica
industriale sia affidata a un ministro delegato, dei tre che in tutto
costituiscono, insieme con il ministro segretario di stato, il consiglio
direttivo del Ministère de l’Économie,
des Financeset – vedi caso - de l’Industrie.
Quanto al nostro ministero per l’Innovazione
Scientifica e Tecnologica, esso si occupa quasi esclusivamente di informatica,
una tecnologia certo di importanza primaria, se non fosse che ne esistono oggi decine di altre parimenti
importanti. Infine il ministero per l’Università e la Ricerca Scientifica e
Tecnologica appare impegnato in prevalenza a produrre norme e decreti, compresi
quelli che istituiscono per decreto distretti tecnologici che avranno forse un
brillante avvenire, ma per ora risultano formati da valenti quanto ristrette
pattuglie di ricercatori e di tecnici.
Una politica volta a rilanciare su nuove
basi la capacità industriale italiana dovrebbe dunque cominciare con una
profonda riforma della struttura e delle competenze dei ministeri. E forse
anche con l’istituzione di apposite agenzie per lo sviluppo di poli o reti di
competenza, tipo la Délégation à
l’aménagément du territoire et à l’action régionale costituita sin dal 1963
in Francia. Su questo punto, naturalmente, gli ostacoli sono politici, ben più
che economici. E gli interventi governativi per rilanciare la competitività di
cui si è finora parlato sembrano un placebo, più che l’energica cura di cui il
paese avrebbe bisogno. qui di seguito pubblichiamo il video della Relazione del Prof. Gallino al Convegno CRISI ECONOMICA,CRISI INDUSTRIALE, CRISI SOCIALE E I LAVORATORI Milano - 28 maggio 2009 organizzato dal Coordinamento Milanese di Solidarietà DALLA PARTE DEI LAVORATORI ( il video è stato pubblicato dalla CUB su www.youtube.com/watch?v=wzCEbwNvMQQ, insieme a tutti gli altri del Convegno)
prosegue la trattativa tra i sindacati e la direzione
tutti i precedenti accordi decadranno
dal 1° gennaio 2016
Da metà settembre si è avviata la trattativa non-stop per arrivare ad un accordo di secondo livello che dovrebbe riguardare tutti i lavoratori dipendenti delle 10 aziende del gruppo Finmeccanica, stiamo parlando di oltre 50 mila lavoratori;
Non è nostra intenzione fare un comunicato polemico ma una semplice analisi critica divisa in 4/5 punti, cercando di sintetizzare tutti gli aspetti che noi riteniamo essere i punti deboli di questa trattativa; per avere altri punti di vista più “costruttivi” e “positivi” basta leggere i comunicati sindacali separati, esposti nelle bacheche sindacali;
FGS (Finmeccanica Global Services): si sta portando a compimento il passaggio di tutti i servizi del Gruppo sotto il controllo diretto di FGS, sia per quanto riguarda i lavoratori che le strutture. FGS controllerà tutte le gare di appalto e tutta la manutenzione dell’intera Finmeccanica. Anche gli immobili passeranno sotto la proprietà di FGS con la conseguenza che le varie aziende non saranno più proprietarie degli stabili: Se FGS dovesse finire nelle mani sbagliate, saremmo costretti a pagare l’affitto (milionario) per usare i nostri stessi stabilimenti;
PDR (Premio di Risultato): non è possibile separare dalla trattativa la parte economica dalla parte normativa del premio, in questo modo la direzione di Finmeccanica potrà modificare a suo piacimento l’entità del premo a seconda che la parte delle regole siano più o meno vantaggiose; Il primo livello da raggiungere è un parametro definito FOCF che comprende anche tutte le uscite decise dal consiglio di amministrazione come ad esempio i dividendi, questo parametro è anche peggio del già contestato ROS; La direzione aziendale pretende di legare il futuro PDR alle assenze dei lavoratori prevedendo un ulteriore “punizione” per chi ha già delle difficoltà personali o familiari;
Accordo di sito sull’orario: riteniamo un errore aver firmato un accordo sulla flessibilità interna di ogni sito, e sulle relative turnazioni, senza avere previsto nello stesso accordo anche i relativi riconoscimenti economici già concordati nei precedenti accordi aziendali, una cosa è legata all’altra: non si può chiedere un sacrificio ai lavoratori senza stabilire l’incremento retributivo. Era anche possibile, in questa fase, estendere la flessibilità in entrata anche agli operai, come d'altronde ha fatto Finmeccanica sulla compensazione oraria ma invece non s’è fatto;
Rappresentanza dei Lavoratori: ogni organizzazione sindacale partecipa alla trattativa in modo separato una dall’altra, facendo comunicati separati e senza nemmeno stabilire una linea comune da tenere negli incontri. Non si è chiesto nemmeno un mandato ai lavoratori o alle singole RSU aziendali, senza parlare di una piattaforma comune: Presentarsi in ordine sparso è un grave errore e ci rende deboli nella trattativa.
Compensazione oraria: pur considerando il fatto che per alcune aziende è una possibilità in più di avere dei permessi per le assenze, riteniamo questo accordo economicamente vantaggioso per l’azienda che pretenderà il recupero nelle ore straordinarie pagandole come ordinarie: anche i 5 minuti dei turnisti vanno comunque recuperati con del lavoro straordinario pagato ordinario, mentre prima i ritardi entro i 2,59 minuti non erano considerati ritardi;
Asa
voce e chitarra, Janet Nwose voce, Nicolas Mollard chitarra, Jean-Francois
Ludovicus batteria, Stefane Castry basso, Didier Davidas tastiere. Un combo
davvero entusiasmante accompagna Bukola Elemide in arte Asa, 32 anni nigeriana
nata a Parigi. Il suo nuovo album “Bed of Stone” uscito a fine agosto è un
canto libero come il significato del nome d’arte che ha scelto, falco.
Cresciuta in Nigeria, a Lagos, dal debutto, nel 2007 con l’album “Asa”, è
spesso paragonata per la sua voce calda e graffiante a Tracy Chapman.
Ma la
musica della trentaduenne è quella che ha assimilato da Fela Kuti e Angelique
Kidyo, con la quale collabora. E poi Bob Marley ed Eryka Badu, artisti
anch’essi che in qualche modo l’accompagnano dalla nascita. Ed il collante di
tutte queste sfaccettature infine, quella koinè artistica che è la
caratteristica delle musicalità presenti nell’Africa occidentale grazie
all’espressività yoruba.
L’impegno per la sua Nigeria poi, nazione in
turbolento sviluppo, era il motivo al centro del primo album, portato al
successo dalla hit “Fire on the Mountain”, mentre la bellezza della
vulnerabilità era il concept del successivo “Beautiful Imperfection”, del 2010.
Nel nuovo disco che Asa ha scritto tra Berlino, Lagos, New Orleans, Londra, è
l’amore, alla fine, che fa da traino alle nuove canzoni, in equilibrio tra
influenze black americane e identità africana. Lagos, una città pullulante di
gente e vibrante di energia, ma anche un luogo caratterizzato da una profonda
spiritualità. L’Islam e il Cristianesimo convivono in un’atmosfera di
tolleranza, i giovani imitano l’America, la città turbolenta si muove senza
sosta in un balletto armonioso e infernale di amore e di odio, risate e
violenza, povertà e benessere. Città dove negli anni suo padre ha accumulato
una notevole collezione di dischi, soprattutto classici soul e musica
nigeriana.
La piccola Asa è cresciuta con il suono di artisti quali Marvin Gaye
e Aretha Franklin dai quali trarre continuamente ispirazione. Nel 2006 Asa
ritorna a Parigi e si ritrova a suonare con artisti quale Nubians, Manu Dibango
e Tony Allen. Nel luglio 2007 firma per la label Naive producendo un magnifico
album pieno di emozioni e melodie; la voce della giovane cantante e la sua
energia confermano il suo eccezionale talento. Ad accompagnarla e a dare luce
particolare al disco è il flauto del “maestoso” Magic Malik. L’R&b si
unisce al pop e al reggae in “Fire on Mountain”, primo singolo dell’album e suo
vero hit “di sempre”, un’impertinente e velata metafora per un mondo ignorante
e indifferente. Chi si rifiuta di prestare attenzione alle scintille non avrà
altra scelta se non correre quando scoppierà l’incendio.
Il fuoco rappresenta
simbolicamente i conflitti e i problemi dell’umanità di cui non ci prendiamo
più cura: la violenza domestica, la povertà fuori dalla porta di casa, e così
via. Asa esprime in tanti modi diversi il suo punto di vista agrodolce nei
confronti della realtà che la circonda. E così denuncia la moderna schiavitù in
tutte le sue forme; gli scempi ambientali e tutte le guerre. Come una moderna griot o cantastorie gira per il
mondo accompagnata da antichi strumenti cordofoni e vibrafoni che insieme a
quelli elettrici producono melodie e musicalità davvero speciali. A esplicitare
come non vi possa essere modernità senza radici poiché –anche- la musica nasce
dal grande cuore dell’Africa. Asa, menestrello del/nel mondo.
webnews.it Dopo i tassisti, le compagnie di autobus. Dopo Uber, ora potrebbe toccare aBlablacar. Dalla Spagna arriva come un tuono la notizia della denuncia per concorrenza sleale a firma Confebús, un’associazione di categoria delle compagnie di pullman, rivolta alla nota piattaforma nata in Francia e che opera oggi in 19 paesi. L’accusa viene dopo indagini della stessa associazione che ha mandato finti clienti in incognito, e ora da Madrid la polemica potrebbe espandersi in tutta Europa.
La Confederación Española de Transporte en Autobús ha messo in discussione un punto che finora aveva tenuto Blablacar alla larga dai problemi vissuti da Uber: l’assenza di guadagno per gli utenti. La piattaforma è di fatto una specie di social network dove le persone si dividono le spese di un viaggio.
L’applicazione non realizza forme di lavoro part time o concorrenzali ad altri sistemi di trasporto, ma organizza in Rete un passaggio in auto secondo la visione generale della sharing economy, che vede come uno spreco i posti vuoti dei veicoli che vanno nella stessa direzione di chi ci vorrebbe andare ma non possiede un’auto. In pochi anni l’idea ha avuto un successo mondiale: 20 milioni di utenti, 400 dipendenti, una quotazione che è arrivata al miliardo e mezzo di dollari.
Evidentemente però tutti questi numeri hanno infastidito qualcuno. Secondo i suoi critici spagnoli, si sarebbe creato un mercato nero e l’immagine degli autisti intenzionati solo a condividere le spese non corrisponde al vero. Questa accusa si basa sull’osservazione di alcuni viaggi coincidenti con le tratte degli autobus, surrogata – secondo Confébus – dalle testimonianze raccolte da finti clienti assoldati per catturare dichiarazioni di autisti e passeggeri. La tesi è che i prezzi scendono rispetto a certe tratte, come fossero in concorrenza col servizio dei pullman. Un’accusa che sembra davvero strana rispetto al tipo di piattaforma. Webnews ne ha parlato con il country manager italiano di Blablacar, Andrea Saviane.
Il panel sulla mobilità in crowdsourcing tenutosi in marzo a H-Farm. In quell’occasione ci fu un confronto fra tre nomi del ride sharing: Uber, Letzgo e Blablacar. Il primo da destra è Andrea Saviane, in mezzo Davide Ghezzi e a sinistra Benedetta Arese Lucini, all’epoca manager di Uber, sostituita quest’estate da Carlo Tursi. Saviane: “Siamo stupiti” Blablacar è diventata un leader del settore facendosi forza su una formula estremamente semplice che l’ha sempre distinta dall’accusa di concorrenza sleale cogli altri mezzi di trasporto. È un asset puramente remunerativo per il suo servizio di fornitore della tecnologia abilitante, ma in tutta Europa e nei paesi emergenti come Turchia, Russia, nessuno l’aveva mai indicata come sleale economicamente. Nessuno prima del caso spagnolo.
La Spagna è per ora l’unico caso al mondo: c’è una spiegazione?
Ci lascia stupiti, soprattutto se si considera che il ride sharing viene incentivato da molte amministrazioni per via dei suoi benefici sul traffico e sull’ambiente. La società è stata indicata da Confébus come fornitore e intermediario di un servizio di trasporto professionale senza licenza: ma BlaBlaCar non è un operatore di trasporto, è una community che mette in contatto automobilisti con altri viaggiatori che desiderano raggiungere una stessa meta; gli utenti si accordano per condividere un passaggio in auto e i relativi costi di viaggio.
Qui c’è un passaggio che si fatica a comprendere: Blablacar è una società, quindi ha finalità commerciali, ma il servizio no.
Ciò che contraddistingue BlaBlaCar da altri operatori è proprio l’assoluta mancanza di una finalità commerciale degli utenti: la community non trae profitto dal ride sharing, gli automobilisti possono solo ammortizzare le spese di benzina e pedaggio grazie al contributo dei passeggeri che effettuano il loro stesso tragitto.
Blablacar si è difesa coi numeri: 98% di autisti che coprono spese inferiori a 50 euro al mese. La concorrenza dove sta?
Siamo fiduciosi che gli argomenti a nostra disposizione possano rappresentare un valida base su cui costruire una risposta alle osservazioni di Confébus. Per quale ragione una persona dovrebbe fare un viaggio in auto copiando gli orari degli autobus, se non ci guadagna niente? Senza una motivazione personale e senza la possibilità di margine sul viaggio, viene meno la motivazione per una persona di mettersi in strada per fare un percorso in auto.
E in Italia? Si finirà per discuterne anche qui?
Troviamo difficile che l’accusa possa essere estesa al nostro Paese. Inoltre, le istituzioni italiane si stanno dimostrando molto aperte nel cercare di dare rilevanza normativa al fenomeno: al momento sono all’esame due disegni di legge volti a regolamentare il carpooling, e anche l’Autorità di Regolazione dei Trasporti ha emesso un atto di segnalazione che include una definizione di carpooling.
Proviamo a immaginare questa teoria: alcune persone copiano gli orari degli autobus, percorrono le stesse tratte dividendo le spese e in qualche modo guadagnandoci un extra-fee; la piattaforma ha la possibilità tecnica di comprendere questo escamotage? Ci vorrebbero degli algoritmi specifici per individuare delle anomalie nei percorsi. Li avete?
Gli algoritmi ci sono. I conducenti BlaBlaCar hanno un interesse personale a fare un viaggio: vanno a trovare la famiglia, gli amici, fanno un weekend fuori porta e così via. Se un conducente prova a farne un utilizzo professionale, cercando di proporsi come servizio di trasporto, è facile identificarlo in base ad un nostro pattern di comportamenti. Abbiamo un algoritmo in grado di identificare comportamenti sospetti, come viaggi offerti sempre alla stessa ora e nella stessa tratta, la richiesta di un contributo spese più alto di quello suggerito e via dicendo. Siamo in grado di identificare questi comportamenti e in questi casi procediamo a sospendere l’account: è stabilito nelle Condizioni Generali di Utilizzo.
Inoltre, come in tutte le piattaforme, il valore del giudizio della community…
In blablacar c’è un forte senso di autoregolamentazione della community attraverso il sistema di feedback: il mancato rispetto delle regole esplicite ed implicite della community viene punito con feedback negativi che precludono l’utilizzo della piattaforma in futuro.
Intanto a Bruxelles parte uno studio Mentre tutti attendono di capire quali altri pareri i tribunali dei vari paesi possano dare sui servizi di ride sharing rispetto alle norme antiquate vigenti in Europa, la Commissione Europea ha chiesto allo studio legale Grimaldiun’analisi completa di tutta la legislazione europea sui trasporti. All’avvocato Francesco Sciaudone e i suoi colleghi il compito di analizzare giuridicamente l’attuale quadro, gravemente lacunoso e non uniforme rispetto all’ingresso nel mercato di nuove forme di trasporto individuale proprio come Uber (che ha deciso di portare il giudizio italiano davanti alla Corte Costituzionale e alla Corte di Giustizia) e Blablacar.