“I governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi saranno ricordati
come quelli che hanno dimostrato la maggiore incapacità nel governare
l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi. Dal 2009 ad oggi il
Pil è calato di dieci punti. Qualcosa come 160 miliardi sottratti ogni anno
all’economia. L’industria ha perso un quarto della sua capacità produttiva. La
produzione di autovetture sul territorio nazionale è diminuita del 65 per
cento. L’indicatore più scandaloso dello stato dell’economia, quello della
disoccupazione, insieme con quelli relativi alla immensa diffusione del lavoro
precario, ha raggiunto livelli mai visti. La scuola e l’università sono in
condizioni vergognose. Sei milioni di italiani vivono sotto la soglia della
povertà assoluta, il che significa che non sono in grado di acquistare nemmeno
i beni e i servizi di base necessari per una vita dignitosa. Il rapporto
debito pubblico-Pil sta viaggiando verso il 140 per cento, visto che il primo
ha superato i 2100 miliardi. Questo fa apparire i ministri che si rallegrano
perché nel corso dell’anno saranno di sicuro trovati tre o quattro miliardi per
ridurre il debito dei tristi buontemponi. Ultimo tocco per completare il quadro
del disastro, l’Italia sarà l’unico Paese al mondo in cui la compagnia di
bandiera ha i colori nazionali dipinti sulle ali, ma chi la comanda è un
partner straniero.
Si possono formulare varie ipotesi circa le origini del
disastro. La più nota è quella avanzata da centinaia di economisti europei e
americani sin dai primi anni del decennio. È un grave errore, essi insistono,
prescrivere al cavallo maggiori dosi della stessa medicina quando è evidente
che ad ogni dose il cavallo peggiora. La medicina è quella che si compendia
nelle politiche di austerità, richieste da Bruxelles e praticate con
particolare ottusità dai governi italiani. Essa richiede che si debba tagliare
anzitutto la spesa pubblica: in fondo, a che cosa servono le maestre d’asilo, i
pompieri, le infermiere, i ricercatori universitari? In secondo luogo bisogna
privatizzare il maggior numero possibile di beni pubblici. Il privato, dicono i
medici dell’austerità, è sempre in grado di gestire qualsiasi attività con
superiore efficienza: vedi, per dire, i casi Ilva, Alitalia, Telecom. Infine è
necessario comprimere all’osso il costo del lavoro, rendendo licenziabile su
due piedi qualunque tipo di lavoratore. I disoccupati in fila ai cancelli sono
molto più disposti ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione, se
sanno che al minimo sgarro dalla disciplina aziendale saranno buttati fuori
come stracci. Altro che articolo 18.
Nell’insieme la diagnosi appare convincente. Le politiche di
austerità sono un distillato delle teorie economiche neoliberali, una macchina
concettuale tecnicamente agguerrita quanto politicamente misera, elaborata
dagli anni 80 in poi per dimostrare che la democrazia non è che una funzione
dell’economia. La prima deve essere limitata onde assicurare la massima
espansione della libertà di mercato (prima di Draghi, lo hanno detto senza
batter ciglio Lagarde, Merkel e perfino una grande banca, J. P. Morgan). La
mente e la prassi di tutto il personale che ha concorso a governare l’economia
italiana negli ultimi anni è dominata sino al midollo da questa sofisticata
quanto grossolana ideologia; non c’è quindi da stupirsi che essa abbia condotto
il Paese al disastro.
Domanda: come mai, posto che tutti i governanti europei
decantano e praticano i vantaggi delle politiche dell’austerità, molti dei loro
Paesi se la passano meglio dell’Italia? La risposta è semplice: perché al di
sotto delle coperture ideologiche che adottano in pubblico, le iniziative che
essi prendono derivano piuttosto da una analisi spregiudicata delle reali
origini della crisi nella Ue. In Italia, non si è mai sentito un membro dei
quattro “governi del disastro” proporre qualcosa di simile ad una tale analisi,
con la conseguenza che oltre a praticare ciecamente le politiche neoliberali, i
nostri governanti ci credono pure. Facendo di loro il personale politico più
incompetente della Ue.
Si prenda il caso Germania; non a caso, perché la Germania è
al tempo stesso il maggior peccatore economico d’Europa (copyright Flassbeck),
e quello cui è meglio riuscito a far apparire virtuoso se stesso e peccatori
tutti gli altri. Il motivo del successo tedesco è noto: un’eccedenza
dell’export sull’import che col tempo ha toccato i 200 miliardi l’anno. Poco
meno di due terzi di tale somma è dovuta ad acquisti da parte di altri paese
Ue. Prodigio della tecnologia tedesca? Nemmeno per sogno. Prodigio, piuttosto,
della formula “vai in malora te e il tuo vicino” (copyright Lapavitsas)
ferreamente applicata dalla Germania a tutti i Paesi Ue. Grazie alle “riforme”
dell’Agenda 2010, dalla fine degli anni 90 i lavoratori tedeschi non hanno
visto un euro in più affluire ai loro salari; il considerevole aumento
complessivo della produttività verificatosi nello stesso periodo si è tradotto
per intero nella riduzione dei prezzi all’esportazione. In un regime di cambi
fissi come quello imposto dall’euro, questo meccanismo ha trasformato la
Germania in un Paese a forte surplus delle partite correnti e tutti gli altri
Paesi dell’Eurozona in Paesi deficitari.
Ha voglia la Cancelliera Merkel di decantare le virtù della
“casalinga dello Schlewig-Holstein”, che spende soltanto quel che incassa e non
fa mai debiti. La virtù vera dei tedeschi è consistita, comprimendo i salari
interni per favorire le esportazioni, nel diventare l’altezzoso creditore
d’Europa, mettendo in fila tutti gli altri Paesi come debitori spreconi. È vero
che negli incontri ufficiali è giocoforza che ognuno parli la neolingua del
regime neoliberale che domina la Ue. Invece negli incontri dove si decidono le
cose serie bisognerebbe chiedere ai governanti tedeschi che anziché della
favola della casalinga si discuta magari delle politiche del lavoro — quelle
tedesche — che hanno disastrato la Ue. Potrebbe essere utile quanto meno per
condurre trattative per noi meno jugulatorie. Tuttavia per fare ciò bisogna
avere una nozione realistica della crisi, e non è chiaro se esiste un solo
governante italiano che la possegga.
Nei discorsi con cui verso metà agosto Matteo Renzi ha
occupato gran parte delle reti tv, si è profuso in richiami alla necessità di
guardare con coraggio alla crisi, di non lasciarsi prendere dalla sfiducia, di
contare sulle risorse profonde del paese. Sarà un caso, o uno spin doctor un
po’ più colto, ma questi accorati richiami alla fibra morale dei cittadini
ricordano il discorso inaugurale con cui Franklin D. Roosevelt inaugurò la sua
presidenza nel marzo 1933. In Usa le conseguenze furono straordinarie. Ma non
soltanto perché i cittadini furono rianimati di colpo dalle parole del
presidente. Bensì perché nel giro di poche settimane Roosevelt creò tre agenzie
per l’occupazione che in pochi mesi diedero un lavoro a quattro milioni di
disoccupati, e attuò la più grande ed efficace riforma del sistema bancario che
si sia mai vista in Occidente, la legge Glass-Steagall. Ci faccia vedere
qualcosa di simile, Matteo Renzi, in tempi analoghi, e cominceremo a pensare
che il suo governo potrebbe anche risultare meno disastroso di quanto oggi non
sembri.”
(da La Repubblica, 19 agosto 2014)