L'ascensore sociale è inceppato: i giovani vivono peggio
dei genitori
Di Chiara Merico - 27 agosto 2014
L’ascensore sociale? È rotto ormai da tempo, e il
sistema educativo non offre più a chi studia la garanzia di poter migliorare la
propria condizione.
Una ricerca del Censis conferma
questa preoccupante tendenza: al primo impiego solo il 16,4% dei giovani nati
tra il 1980 e il 1984 è salito nella scala sociale rispetto alla
famiglia di origine, mentre quasi un terzo (il 29,5%) ha sperimentato la
cosiddetta “mobilità discendente”, trovandosi in una condizione meno agiata di
quella della famiglia di provenienza.
«Accade sempre più spesso che i genitori senza laurea
lavorino, mentre i figli, pur laureati, non trovano un’occupazione», spiega a La
Repubblica degli Stagisti Domenico De Masi, professore emerito
di Sociologia del lavoro all’università La Sapienza di Roma. «L’ascensore
funziona sempre più al contrario: una frazione crescente della classe media si
sta proletarizzando. In Italia ci sono 8 milioni di poveri, e prima della crisi
erano 5 milioni: il loro ascensore è sceso, così come è sceso quello dei
disoccupati», aggiunge il sociologo.
La scuola sembra aver ormai abdicato alla sua funzione di riequilibratore
sociale, che consentiva ai capaci e meritevoli, sia pur provenienti da
famiglie disagiate, di farsi avanti e raggiungere una condizione migliore:
l’abbandono scolastico è marginale tra i figli dei laureati (2,9%), sale al
7,8% tra i figli dei diplomati e arriva addirittura al 27,7% tra i figli di
genitori che si sono fermati alla scuola dell’obbligo. Un ragazzo su tre tra
quelli che concludono anzitempo il percorso di studi viene da una famiglia in
cui i genitori svolgono professioni non qualificate, contro il 3,9% dei figli
di genitori che sono impiegati in professioni qualificate.Una buona istruzione non basta a salvare i ragazzi dalla disoccupazione: anzi, la crisi ha portato a un rafforzamento del fenomeno dell'«overeducation», cioè del possesso di un titolo di studio superiore a quello richiesto. Tra il 2008 e il 2013 la domanda di lavoro in Italia ha continuato a concentrarsi soprattutto sui livelli di studio bassi, gli unici a registrare un andamento positivo (+16,8%), a scapito sia dei titoli medi (-3,9%), sia di quelli più elevati (-9,9%). Aumentano i diplomati (+32,7%) e ancora di più i laureati (+36,6%) impiegati in mestieri che richiedono una bassa qualifica: e non sembra valere più nemmeno la distinzione tra lauree “forti”, come quelle in materie economiche, statistiche o in ingegneria, e “deboli”, come quelle in scienze sociali e umanistiche: oltre un laureato su due in materie economiche e un ingegnere su tre sono costretti a ripiegare su lavori meno qualificati, contro il 43,7% dei laureati in materie umanistiche o sociologiche. In questo quadro, la sfiducia regna sovrana: se in Europa due terzi dei giovani tra 18 e 29 anni si dichiarano ottimisti verso il futuro, in Italia la percentuale non arriva alla metà. Questo atteggiamento influisce anche sulla crescita degli abbandoni scolastici: secondo i dati del Censis, nel giro di 15 anni la scuola statale ha “perso” circa 2,8 milioni di giovani, di cui solo 700mila hanno continuato a studiare in istituti non statali o hanno trovato un lavoro. I giovani italiani diplomati tra i 20 e i 24 anni sono il 77,9%, contro una media europea dell'81,1%.
La sfiducia nell’istituzione scolastica è legata anche al
rapporto sempre più difficile tra i genitori e gli educatori: solo un genitore
su dieci partecipa alle elezioni degli organi collegiali, e il 24,6% dei
presidi evidenzia che le famiglie assumono un atteggiamento sempre meno
collaborativo. «Il problema della scuola in Italia è vastissimo e ha diverse
cause», commenta De Masi. «Prima di tutto, è dovuto alla serie di ministri che
si sono succeduti negli ultimi anni e non hanno saputo gestire la situazione.
Poi c’è la questione della scarsa corrispondenza tra scuola e lavoro: in Italia si sceglie l’indirizzo scolastico a 15 anni, e al termine del percorso, quando lo studente ne ha 25, il mondo è cambiato e le esigenze sono diverse. Infine, la scuola italiana è stata massacrata dai tagli, ed è in fondo alle classifiche dei Paesi Ocse».
Il clima di disincanto e demotivazione si riflette anche
sull’università, che continua a perdere iscritti: nella fascia di età tra i 30
e i 34 anni solo un italiano su cinque è laureato, contro una media europea del
34,6%. E le immatricolazioni continuano a calare: nell’anno accademico
2011-2012 sono state circa 9.400 in meno rispetto all’anno precedente, per un
tasso di passaggio dall’istruzione superiore a quella universitaria calato dal
50,8% al 47,3% in due anni.
Ma anche chi decide di iscriversi non sempre tiene
fede all’impegno: solo uno studente italiano su quattro si laurea in corso, nei
tre anni canonici, e solo il 55% degli iscritti arriva a conseguire il titolo,
contro una media del 70% nei Paesi Ocse.
Chiara Merico