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giovedì 14 gennaio 2016

Hindi Zahrala : musica magnetica di questa Kate Bush dell’Atlante marocchino (recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti)


recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti
HINDI ZAHRAIA. La musica magnetica di questa Kate Bush dell’Atlante marocchino è la piena dimostrazione che la musica ha la forza di unire armoniosamente le differenze, in queste caso le sponde del Mar Mediterraneo.Accompagnata da una band di musicisti davvero eterodossi ( in forza delle ispirazioni multicolori che li caratterizzano) quali il tastierista, trombettista e flautista David Dupuis, il bassista Jeffrey Hallam, i chitarristi Jerome Plasseraud e Paul Salvagnac, il percussionista Ze Luis Nascimento e il batterista Raphael Seguinier.
Già il precedente album “Handmade” era apparso fresco e avvincente come un fiore nel deserto ma quest’ultimo decisamente ancor di più. “Homeland” è ancor più caratterizzato da un moderno ritorno alle radici. Si sente forte la musica gnawa, quel crogiuolo di musica araba e berbera che affonda le sue radici nelle carovane che attraversavano il Sahara e quindi sono in tutta evidenza nelle musiche di ogni singolo brano quegli strumenti tradizionali quali la guaita (strumento a fiato) e il qraqb (strumento a percussione simile alle nacchere).
D’altro canto un disco registrato tra Marrakesh (in un riad tipico della Kasbah) Essaoura e Cordòba non può che caratterizzarsi per onde musicali transfrontaliere come le onde umane delle migrazioni contemporanee e che come queste porta sempre con se anche un pizzico di musica gitana, che Bombino (il noto chitarrista del deserto) rielabora in ogni singolo pezzo in cui collabora nel disco, unendo tali note al preponderante amore per il blues (dal maliano Ali Farka Tourè) che lo caratterizza. Quindi i profumi di bossanova di Can We Dance e il tutto arabeggiante di Cabo verde che riporta al favoloso Beautiful tango del precedente album. E poi la accattivante The Moon is Full che pare una suadente canzone da “Rive gauche”, quale una sorta di Edith Piaf del deserto a vocalizzare un testo carico di phatos.
Un mosaico di tradizioni artistiche, una miscellanea di influenze tenute insieme da una figlia della cultura mediterranea tutta, senza esclusioni di sorta. Con un ricamo di tessiture elettroniche appena percettibili infine, elaborate da Beth Gibbons dei Portishead. Senza dimenticare che in alcuni passaggi è evidente la lezione dei maestri del “gnawa sound”, quei Master Musician of Joujouka tanto amati da Brian Jones e dai poeti della letteratura baetnik. Il cerchio che si chiude.