recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti
CUBAN BEATS ALL STARS
Le
radici della musica cubana si possono trovare nei cabildos, ritrovi sociali
auto-organizzati per schiavi africani. Ogni cabildo riuniva una etnia o più
gruppi etnici sovraregionali (riferendoci all’Africa, il luogo di origine). I cabildos
principali erano tre: gli Yoruba, i Congolesi, i Dahomey. Senza dubbio
all’interno di un cabildo erano presenti più culture, che vennero preservate
anche dopo l’abolizione della schiavitù nel 1886. Sono poi tre i fondamentali
filoni musicali. Il primo è quello del sòn, genere di matrice spagnola e
africana, la cui evoluzione ha portato alla nascita negli anni trenta di
famosissimi gruppi detti septetos e sextetos. Un secondo filone, il danzon, attinge
alla tradizione francese ed è una forma dai toni più sommessi e affidata a una
strumentazione composta per lo più di strumenti a corda. Il terzo è infine
attribuibile integralmente alla cultura africana. Sicuramente gli strumenti più
importanti sono i tamburi, dei quali originariamente ne esistevano 50 tipi
diversi; oggi abbiamo bongo, congas e batà. Parimenti importanti sono le claves
ed il Cajon. E proprio su questi due ultimi strumenti si innerva il suono “tradizionalmente”
moderno dei Nostri. Che germinano dalla strepitosa band (cubana anch’essa) degli
Orishas che ad un certo punto si diede diverse esplorazioni musicali per i
componenti la stessa. Quattro quinti d’essa confluì nei Cuban Beats All Stars
dando vita ad un meltin’ pot musicale davvero caleidoscopico, tradizione cubana
con suoni tipicamente urbani, loop elettronici con nenie tribali e con una
gamma di temi affrontati quali la critica sociale, la strenua difesa
dell’ambiente, la stigmatizzazione dei perbenismi, la difesa dei liberi
costumi…con il sottofondo di un suono magico e cangiante come a leggere le
pagine più belle di Garcia Marquèz ed il loro clima straniante. Hiram Riverì
(voce) Nelson Palacios (voce, violino e piano) Vladimir Nùnèz (percussioni e
cori) Dj Tillo (dj e cori), un combo lanciato per sentieri immaginifici in cui
la canciòn (genere che trova origini nelle forme della musica popolare spagnola
come tirana, polos e boleros a base di melodie intricate e scure conditi da
testi enigmatici che nel tempo divennero più esplicitamente sociali quando la
canciòn venne “presa” a stumento dai trovadores, un movimento di musici
itineranti ispirati direttamente dal popolo minuto) si mescola allo Changuì
(stile musicale che nasce intorno al
1800 nella regione di Guantanamo e si sviluppò nelle raffinerie della canna da
zucchero e nelle comunità rurali popolate dagli schiavi –un po’ come lo
stevedore, il genere musical-vocale dei portuali americani che darà le basi per
il primissimo blues- e che combina la chitarra delle desolate lande spagnole
–del tempo- con i ritmi africani e le percussioni di origini Bantu Arara)
insieme alle iperboli del polistrumentista Roy Pinatel, ormai il quinto membro
fisso, diplomato al conservatorio di Santiago di Cuba ed amante del jazz che si
frantuma nel Hip Hop. Per l’appunto l’Hip Hop con i tradizionali stilemi che lo
contraddistinguono a dare un confine musical al tutto. E quindi ampie parti
vocali di solo parlato, tessiture elettroniche downtempo, beats elettronici,
percussioni tribali, litanie chitarristiche catalane...la globalizzazione,
quella delle culture però.