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martedì 10 novembre 2015

Luciano Gallino , relazione SUL DECLINO INDUSTRIALE E SUI MODI PER USCIRNE al Convegno tenutosi a Milano il 23 febbraio 2006 e Relazione del Prof. Gallino al Convegno CRISI ECONOMICA,CRISI INDUSTRIALE, CRISI SOCIALE E I LAVORATORI Milano - 28 maggio 2009 organizzati dal Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI"

in memoria del Prof. Luciano Gallino, pubblichiamo qui di seguito la Relazione da lui tenuta sul tema: "SUL DECLINO INDUSTRIALE E SUI MODI PER USCIRNE" al Convegno organizzato dal Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI" a Milano il 23 febbraio 2006  e il video della Relazione da lui tenuta sul tema: "CRISI ECONOMICA, CRISI INDUSTRIALE, CRISI SOCIALE E I LAVORATORI organizzato dal Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI" a Milano il 28 maggio 2009 


"Un progetto per rispondere al declino industriale,
alla crisi occupazionale,all'attacco al mondo del lavoro"

Convegno tenutosi a Milano il 23 febbraio 2006
Sala Auditorium 1S – Consiglio Regionale della Lombardia

Prof. Luciano GALLINO
Professore Emerito di Sociologia
Università di Torino

SUL DECLINO INDUSTRIALE E SUI MODI PER USCIRNE

In  tema di declino industriale dell’Italia circolano da tempo, nei media ma anche nella letteratura specialistica,  varie affermazioni che si possono compendiare come segue: 1) Il declino, in realtà, non esiste; 2) quel che sembra un declino è, semmai, una trasformazione del sistema produttivo nazionale; 3) il fatto che  l’industria italiana sia per metà in mani straniere non è un segno di declino: l’importante è che la produzione continui a svolgersi nel nostro paese; 4) anche se l’industria manifatturiera dovesse scomparire non importa: il futuro appartiene ai servizi.

Per ciascuna di tali affermazioni esporrò sinteticamente le ragioni per cui mi pare che esse non poggino su basi solide, ovvero siano idee ricevute.  Da ultimo dirò perché, a mio giudizio, le proposte delineate finora in sede governativa per contrastare il declino e rilanciare la competitività sfiorano appena, in pratica, la superficie del problema.

1) Tra i segni di declino che non si possono ignorare vanno collocati la crescita esigua del Pil, che dopo essere stata minima per anni è passata al negativo nel quarto trimestre 2004 (- 0,4%) e nel primo trimestre 2005 ( - 0,5 secondo l’Istat, - 0,6 secondo l’Ocse), per riportarsi a fine anno vero lo zero;  la stagnazione o la diminuzione della produzione industriale in quasi tutti i principali comparti, in media – 0,5 al trimestre;   la diminuzione in un decennio di oltre un punto e  mezzo della quota italiana delle esportazioni nel mondo, dal 4,6 al 3% in termini reali.

Parecchi altri indicatori sono disponibili. Ad esempio, tra le 2000 società più importanti del mondo classificate secondo un indice che combina vendite, utili e valore in borsa, pubblicata da “Forbes” nel maggio 2005, l’Italia vi compariva con sole 45 società, contro le 63 della Germania, le 62 della Francia e le 140 del Regno Unito. Per tacere di paesi che hanno tra un quarto e un ottavo della nostra popolazione - Olanda, Svezia, Svizzera – e però erano presenti nello stesso gruppo con un numero di gruppi economici di poco inferiore al nostro. La  Svizzera, per dire, con i suoi sette milioni di abitanti, portava in detta classifica ben 37 società. Parecchie delle quali, si noti, sono grandi gruppi industriali.

Nello stesso senso depongono le serie storiche. “Business Week” pubblica ogni anno un’altra classifica, quella delle Global 1000, ordinate in questo caso per valore di mercato. In essa si scopre che nel 2000 le società italiane erano presenti in 31; nella edizione aggiornata al maggio 2004 erano scese a 23. Tra  queste i gruppi  industriali  erano in minoranza, e molti si situavano intorno al 750° posto o al disotto. In tale posizione si trovavano Edison, Luxottica, Fiat e Finmeccanica.

Sempre da un punto di vista storico o diacronico va ricordato che negli ultimi lustri sono scomparsi, o  sono vistosamente deperiti, interi settori industriali, senza che nessun altro sia emerso di dimensioni sufficienti a compensare il loro peso nell’insieme dell’economia. A causa delle “guerre chimiche” degli anni ’70 e ’80, che hanno visto via via come protagonisti Montecatini, Montedison, Enichem ecc., è scomparsa in Italia la grande industria chimica. La produzione in grande serie  di personal computer, nella quale la Olivetti aveva occupato posizioni di leader europeo dopo essere stata la prima al mondo a lanciarli sul mercato – nel lontano 1965 -   è cessata formalmente nel 1997. Per fortuna l’industria automobilistica, che in Italia vuol dire soltanto Fiat, appare oggi emergere dalla crisi, ma va ricordato che al presente si batte per riconquistare il 7% del mercato europeo, laddove un decennio fa si batteva per mantenere  quota 18%. 

Per documentarsi sul declino industriale sono inoltre disponibili gran numero di rapporti sullo stato della economia italiana che escono da centri di ricerca europei, sia pubblici che privati. Nell’insieme essi dicono in sostanza, con equilibrio e ricchezza di dati, che la mancanza di competitività dell’economia italiana è dovuta a serie debolezze strutturali. La prima delle quali è che il 95% delle imprese italiane hanno meno di 10 dipendenti,  per cui non sono in grado di fare né ricerca e sviluppo ad alto livello, né formazione del personale.

2) Affermare che l’industria italiana non soffre di declino, bensì si è trasformata, può significare almeno tre cose diverse. Che certi settori dell’industria sono effettivamente scomparsi, però (a)  ne sono emersi altri che prima non esistevano, o erano di peso modesto. Oppure (b) che uno stesso settore si è differenziato al suo interno, e sebbene continui a venir designato con il medesimo nome produce bene e servizi differenti rispetto a prima. Infine (c) la stessa affermazione può voler dire che un intero settore o comparto industriale, caratterizzato un tempo dalla presenza di poche  grandi imprese, si è frazionato in gran numero di imprese piccole e medie. In  complesso quel tale settore o comparto continuerebbero a prosperare, ma le dimensioni delle sue principali  imprese, essendosi  ridotte,  fanno sì che il medesimo sia diventato invisibile, o quasi, ai tradizionali metodi di misurazione delle attività economiche.

Riguardo ai primi due modi di concepire le trasformazioni dell’industria, le statistiche internazionali non offrono in verità molti appigli per sostenere che l’industria italiana, indossate nuove vesti, goda tuttora di buona salute. Si veda  il precitato  elenco delle Global 1000, le prime  mille società del mondo classificate in base al loro valore di mercato, pubblicato ai primi di agosto 2004 da “Business Week”. La prima cosa che salta all’occhio in tale elenco è che tra le prime 50 ben 36 sono società o gruppi industriali, e industriali sono le prime quattro: General Electric, Microsoft, Exxon e Pfizer.

Il primo gruppo italiano in classifica è l’Eni, al 37° posto, con un buon avanzamento rispetto al 2003 quando era  50°. Tra l’86° e il 105° posto si collocano Enel, Tim e Telecom Italia (che però, dopo la incorporazione di Tim, appare in posizione più alta nella analoga classifica del 2005). Dopodiché per trovare altre imprese industriali italiane – mi riferisco sempre all’elenco di “Business Week” dell’agosto 2004 - occorre scendere verso il 750° posto, dove stanno fianco a fianco Edison e Luxottica. Saltando un altro centinaio di scalini verso il basso si incontrano finalmente il gruppo Fiat (841°) e Finmeccanica (850°, con un forte balzo all’ingiù perché nel 2003 l’analogo rapporto la poneva al 669°). Queste imprese italiane sono strette, in tale classifica,  fra un folto gruppo di corporations non appartenenti, parrebbe, ai primi paesi industriali del mondo. Sono infatti imprese spagnole, canadesi, taiwanesi, tailandesi, messicane. 

Che cosa si può ricavare dal  suddetto  elenco a favore dell’ipotesi che l’industria italiana non declina, bensì  va trasformandosi? Piuttosto poco.   La sola novità – per quanto significativa -  è rappresentata dal gruppo Luxottica, diventato il primo produttore mondiale di occhiali. Il suo valore di mercato era al maggio 2004 più elevato del gruppo Fiat – 7,3 miliardi di dollari rispetto a 6,4 - ma le sue vendite erano diciassette volte minori: 3,4 miliardi di dollari contro 57,7 nel 2003. In altre parole, ci vorrebbero in Italia altre diciassette novità come Luxottica per pareggiare i volumi di vendita, e quelli correlati di produzione e di occupazione diretta e indiretta, dell’ultimo grande gruppo manifatturiero che esista ancora  in Italia.

In sostanza, dall’elenco di “Business Week”  il quadro che si evince dell’industria italiana a metà 2004 appariva così connotato: tolte le prime quattro (Eni, Enel, Tim e Telecom Italia), le altre  cinque si collocavano verso il fondo della classifica, dietro a centinaia di società appartenenti a paesi più piccoli o meno sviluppati dell’Italia. Per di più in una prospettiva comparata le imprese industriali italiane erano  scarse: appena 9 sulle 23 società incluse nell’elenco, una minoranza, mentre quelle britanniche sono 40 o più su 73, le  francesi 32-33 su 44, le tedesche 23 su 35.
Infine le nove imprese industriali italiane producevano precisamente i beni ed i servizi descritti dalla loro ragione sociale, più o meno come hanno fatto sin dalla nascita. Detto altrimenti, esse  non appaiono essersi trasformate affatto, nel senso di avere costituito entro  di sé sotto-settori che a fronte di una crisi di lungo periodo delle produzioni tradizionali assicurerebbero comunque la sopravvivenza e la crescita del gruppo. Salvo voler considerare rivoluzionario il fatto che l’Enel abbia una consociata telefonica, o salvifico per il gruppo Fiat avere acquisito delle partecipazioni in campo energetico.

Che cosa resta dunque a sostenere l’ipotesi che l’industria italiana “non declina ma si trasforma”? A suo favore si osserva da varie parti che le imprese industriali italiane sono ormai quasi tutte delle piccole-medie imprese, nessuna delle quali ha una stazza sufficiente per entrare nell’elenco delle Global 1000 di “Business Week”, o in quelle simili redatte annualmente da “Forbes”, “Fortune”, “Financial Times”, o Standard & Poor’s. Il che equivale  a dire che l’industria italiana c’è, ed è solida, ma le sue unità hanno – volutamente e felicemente - dimensioni troppo limitate per poter essere captate dalle grezze lenti delle classifiche internazionali.
Da tale richiamo segue però una stravagante implicazione. L’Italia sarebbe l’unico paese al mondo il quale insiste a definirsi  industriale non avendo più imprese industriali che siano capaci di far ricerca e sviluppo su larga scala; di reggere alla concorrenza internazionale grazie alla novità ed alla qualità dei suoi prodotti,  piuttosto che alla compressione del costo del lavoro; e di mantenere in mano propria, piuttosto che consegnare nelle mani di gruppi economici di altri paesi, i centri di governo delle loro attività.

3) Negli ultimi due o tre anni si sono susseguite notizie relative alla chiusura o al ridimensionamento di aziende o stabilimenti  controllati da multinazionali straniere, con la perdita immediata o prevedibile per il prossimo futuro, in complesso, di migliaia di posti di lavoro.  Tra le decine di casi del genere si possono ricordare l’Embraco nel torinese, controllata dall’americana  Whirlpool; la Tecumseh, anch’essa in Piemonte;  le acciaierie del magnetico di Terni controllate dalla tedesca ThyssenKrupp; stabilimenti della Zanussi in diverse regioni facenti capo alla svedese Electrolux.   Sono segnali di una situazione del tutto anomala che caratterizza la nostra industria. L’Italia è infatti il solo paese Ue in cui circa la metà dell’industria chimica; della farmaceutica; dell’alimentare, dove la quota delle società straniere ha superato il 50% con la recente acquisizione della Galbani da parte della francese Lactalis; dell’elettrotecnica di gamma alta; degli elettrodomestici; della telefonia mobile ecc. è controllata da imprese estere. Anche la siderurgia ha imboccato tale strada, con la recente cessione delle acciaierie Lucchini ai russi della Severstal.

Non mancano coloro che a fronte di tale situazione avanzano rassicurazioni asserendo che quel che accade non è altro che un effetto  della globalizzazione, ovvero della mondializzazione, come si preferisce dire in Francia. Gli stabilimenti che chiudono in Italia per mano di gruppi che hanno sede principale all’estero – si afferma - sono via via compensati da altri che vengono aperti da imprese straniere. Queste ultime recano con sé sviluppo, tecnologia, inserimento in più ampi circuiti dell’economia internazionale.  Al proposito un economista è giunto a scrivere che è meglio essere una colonia benestante piuttosto che un paese indipendente ma povero. Nel  contempo le imprese italiane  si andrebbero consolidando, aprendo numerose unità produttive all’estero.

L’evidenza disponibile suggerisce, al contrario, che l’Italia riceve dall’estero pochi investimenti, e ne effettua ancor meno in altri paesi. Nel 2003 essa ha ricevuto appena 16,4 miliardi di dollari di investimenti diretti all’estero (IDE), e ne ha effettuati la miseria di 9,1.  La Francia ne ha ricevuti quasi tre volte tanti, 46,9 miliardi di dollari, e ne ha effettuati quattro volte di più, cioè 57,2 miliardi. E con una popolazione quattro volte minore di quella italiana l'Olanda ha largamente battuto la penisola nei flussi di IDE, sia in entrata, con 19,6 miliardi di dollari, sia in uscita, con ben 36 miliardi.
Inoltre, come avviene da tempo, gli investimenti ricevuti dall'Italia non sono stati in quasi nessun caso del tipo green field (“campo verde” o pré vert), i quali  consistono nella apertura  dal nulla di nuove unità produttive, con relativa creazione di posti di lavoro addizionali. Sono consistiti semplicemente nell'acquisto di aziende già in attività, con effetti minimi, e talora negativi, sull'occupazione.

Sembrerebbe quindi che aver passato nelle mani di imprese estere quasi metà dei suoi principali settori industriali abbia portato in casa, all’Italia, il peggio della globalizzazione, cioè la dipendenza da soggetti economici lontani e irresponsabili; un avvìo, in altre parole, allo stato di un paese che rischia di essere, al tempo stesso, sia colonizzato che povero.

4) Ad onta degli apologeti del post-industriale e della società dei servizi, che a vero dire da qualche tempo sembrano meno numerosi,  l’industria manifatturiera rappresenta tuttora, e continuerà ad essere nei prossimi decenni,  un settore assolutamente centrale dell’economia contemporanea.  Chi insista sul fatto che l’occupazione nell’industria è scesa grosso modo, ovviamente con notevoli variazioni da un paese all’altro,  dal 30-35% al 15% in pochi decenni, e su  questa base formula una diagnosi di scomparsa dell’industria nei paesi sviluppati, è vittima per forse tre quarti di un abbaglio statistico.

Un documento della Commissione Europea del 2002, avente per oggetto “La politica industriale in un’Europa allargata”, coglieva bene il problema.  In una  sezione dedicata a “L’industria come fonte della ricchezza in Europa” si leggeva infatti: “In anni recenti la struttura produttiva europea ha subito notevoli trasformazioni. La quota del settore dei servizi nella produzione dell’UE è passata dal 52% nel 1970 al 71% nel 2001, mentre nello stesso periodo la quota dell’industria manifatturiera è diminuita dal 30% al 18%.” … Per effetto di questa “terziarizzazione” i responsabili politici non hanno riservato sufficiente attenzione all’industria manifatturiera, sulla base della diffusa ma erronea convinzione che nell’economia basata sulla conoscenza e nella società dell’informazione e dei servizi l’industria manifatturiera non svolga più un ruolo essenziale…(enfasi nel testo).”

Simile sottovalutazione del peso reale dell’industria si deve al fatto che “le imprese manifatturiere – precisa il documento della CE - hanno esternalizzato funzioni ritenute non essenziali, che in precedenza erano calcolate come parte del settore manifatturiero. La sua accresciuta domanda intermedia di servizi ha contribuito all’aumento della produzione di servizi alle imprese, che nel 2000 rappresentavano il 48,3% del Pil della Ue a 15.” A conti  fatti, lungi dal diminuire in conformità al teorema del post-industriale, tanto la quota complessiva sul Pil del valore aggiunto  dell’industria manifatturiera e dei servizi alle imprese, che in gran parte sono diretti proprio ad essa, quanto la quota complessiva dell’occupazione nei due settori, sono aumentati tra il 1991 e il 1999 nei paesi Ue: dal 66,4 al 68% per quanto riguarda il valore aggiunto di manifattura e servizi all’imprese, e dal 57,9 al 58,4% per quanto attiene all’occupazione dei due settori sul totale degli occupati.

Da tali dati ne segue che al centro di qualsiasi politica industriale dovrebbero essere tuttora collocati i problemi della industria manifatturiera. Quella appunto che in Italia rischia di scomparire. Con possibile grave danno  anche per il settore dei servizi, visto che due terzi di essi sono richiesti dall’industria.

Posto che il declino industriale dell’Italia sembra davvero esistere, si tratta di vedere come si potrebbe uscirne. Un primo  passo dovrebbe consistere nel farsi venire delle idee in tema di politica economica e industriale. Un secondo passo, altrettanto indispensabile,  starebbe nel predisporre i mezzi per attuarle. E qui la strada si presenta davvero impervia. Le idee al riguardo non nascono dal nulla. Nascono – così accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna – da un dialogo sistematico e permanente tra ministeri, enti territoriali, atenei, istituti di ricerca scientifica e tecnologica pubblici e privati,   sindacati, associazioni imprenditoriali, unioni professionali.
E’ un dialogo diretto a far emergere quali sono i punti di forza e di debolezza di un’economia, e quali sono gli spazi in cui concentrare le risorse disponibili per avviare poli tecnologici e reti di sviluppo con elevati livelli di integrazione verticale e orizzontale, ossia interna ed esterna. Spiace dirlo, ma i duecento distretti industriali italiani  - sulle cui virtù miracolose sono stati  molti  a   illudersi – al confronto con meraviglie industriali come il polo aeronautico di Tolosa, la Optics Valley a sud-est di Parigi,  o il distretto biotecnologico dell’area di Monaco di Baviera, appaiono, forse con una dozzina scarsa di eccezioni, in ritardo di vent’anni.

Qui si tocca un punto critico per una nuova politica industriale. Probabilmente l’Italia non avrà mai più delle grandi imprese con decine di migliaia di addetti, come aveva in passato. Ma poiché le grandi imprese sono indispensabili per fare ricerca e sviluppo, per realizzare economie di scala, per stabilire rapporti di partecipazione con imprese di peso economico e tecnologico paragonabile, è necessario sviluppare delle imprese distribuite sul territorio, dove un numero elevato di PMI operino come se fossero reparti o consociate di un singolo gruppo economico, raggruppate in poli tecnologici di rilevanti dimensioni.  Occorrerebbe pertanto far crescere in tale direzione un certo numero di distretti italiani, selezionati tra quelli che presentano al  riguardo le caratteristiche più idonee. Tali sistemi produttivi dovrebbero rispondere a quattro condizioni principali: 1) un polo tecnologico si costruisce sulla base di uno o più progetti tecnologici e industriali di larga scala e a lungo termine, cui partecipano mediamente da alcune decine a centinaia di attori collettivi differenti, concentrati in una specifica area territoriale. 2) Il progetto o i progetti alla base di un sistema produttivo centrato su tecnologie e processi industriali ad alto valore aggiunto presuppone in ogni caso una scelta preliminare degli specifici settori tecnologici in cui dovranno necessariamente rientrare. E’ qui dove l’Italia in generale è più carente, come risulta anche da iniziative recenti del Ministero delle Attività produttive e del Miur. Anziché scegliere i settori di intervento, si propongono finanziamenti a pioggia, fidando nel mercato affinché, in seguito, faccia emergere i più meritevoli. Mentre in Francia, con un solo anno di preparazione, nell’ottobre 2005 sono stati creati 55 nuovi poli tecnologici ciascuno dei quali è stato selezionato sulla base del progetto preliminare presentato. 3) In un sistema produttivo innovativo debbono essere obbligatoriamente presenti sin dall’inizio, in una relazione di effettiva prossimità, almeno quattro tipi di attori: PMI, imprese sussidiarie di gruppi multinazionali, società di servizi;  centri di ricerca e sviluppo pubblici e privati; enti di formazione, dagli istituti professionali all’università; associazioni economiche e professionali.  E’ evidente che solo una robusta politica industriale sarebbe capace di realizzare le suddette condizioni.

Una simile politica industriale nel nostro paese è assente non già perché manchino tecnici, scienziati, imprenditori e lavoratori di prim’ordine, e nemmeno pubblici amministratori. Piuttosto perché manca – per tornare al secondo passo che appare necessario allo scopo di uscire dal declino – sia l’iniziativa che una idonea  strumentazione organizzativa da parte del governo e dello stato. Se mai venissero elaborate, quelle tali idee di politica economica, avrebbero bisogno di organi operativi per essere tradotte in realtà.
Ma quali ministeri potrebbero operare in Italia a tale scopo, con i propri mezzi o inventando nuove forme di organizzazione? Il ministero dell’Economia gestisce il patrimonio di cui lo stato è ancora proprietario con lo spirito imprenditoriale di un amministratore di condominio. Basti pensare alla vicenda Alitalia, alla cui crisi decennale il ministero ha semplicemente assistito, anche quando controllava ancora il 100% del capitale. Il ministero delle Attività Produttive si articola in ben 11 direzioni generali, di cui una  sola, la Direzione generale per lo sviluppo produttivo e competitività,  include tra le sue competenze la “elaborazione ed attuazione ed interventi di politiche industriali nazionali e internazionali”, insieme con – letteralmente – decine di altre competenze. Ancora nella vicina Francia si osserva invece come, a sottolineare l’importanza che ad essa viene attribuita nell’organigramma ministeriale, la politica industriale sia affidata a un ministro delegato, dei tre che in tutto costituiscono, insieme con il ministro segretario di stato, il consiglio direttivo del Ministère de l’Économie, des Finances et – vedi caso - de l’Industrie.

Quanto al nostro ministero per l’Innovazione Scientifica e Tecnologica, esso si occupa quasi esclusivamente di informatica, una tecnologia certo di importanza primaria, se non fosse che  ne esistono oggi decine di altre parimenti importanti. Infine il ministero per l’Università e la Ricerca Scientifica e Tecnologica appare impegnato in prevalenza a produrre norme e decreti, compresi quelli che istituiscono per decreto distretti tecnologici che avranno forse un brillante avvenire, ma per ora risultano formati da valenti quanto ristrette pattuglie di ricercatori e di tecnici.



Una politica volta a rilanciare su nuove basi la capacità industriale italiana dovrebbe dunque cominciare con una profonda riforma della struttura e delle competenze dei ministeri. E forse anche con l’istituzione di apposite agenzie per lo sviluppo di poli o reti di competenza, tipo la Délégation à l’aménagément du territoire et à l’action régionale costituita sin dal 1963 in Francia. Su questo punto, naturalmente, gli ostacoli sono politici, ben più che economici. E gli interventi governativi per rilanciare la competitività di cui si è finora parlato sembrano un placebo, più che l’energica cura di cui il paese avrebbe bisogno.

qui di seguito pubblichiamo il video della

Relazione del Prof. Gallino al Convegno 

CRISI ECONOMICA,CRISI INDUSTRIALE, 

CRISI SOCIALE E I LAVORATORI 

Milano - 28 maggio 2009 
organizzato dal Coordinamento Milanese di Solidarietà DALLA PARTE DEI LAVORATORI 
( il video è stato pubblicato dalla CUB su www.youtube.com/watch?v=wzCEbwNvMQQ, insieme a tutti gli altri del Convegno)





https://youtu.be/wzCEbwNvMQQ