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sabato 30 luglio 2016

TISA (Accordo sul commercio dei servizi) : L’IDRA DALLE SETTE TESTE di Alex Zanotelli

TISA (Accordo sul commercio dei servizi)
                                                               
                                                                          L’IDRA DALLE SETTE TESTE
Il profeta dell’Apocalisse descrive la Roma Imperiale come la BESTIA dalle sette teste che rappresentano i sette imperatori. Anche il nostro Sistema economico-finanziario è una Bestia dalle sette teste che sono i sette importanti trattati internazionali (NAFTA, TPP,TTIP, CETA, TISA, CAFTA, ALCA), siglati per creare un mercato globale sempre più liberista sotto la spinta delle multinazionali e della finanza che vogliono entrare nei processi decisionali delle nazioni.
I trattati che ci interessano più direttamente ora sono il CETA(Accordo Commerciale tra Canada e Europa), il TTIP (Partenariato Transatlantico per il commercio e per gli investimenti) e il TISA (Accordo sul commercio dei servizi).Il CETA sta per essere ormai approvato , nonostante le tante contestazioni soprattutto per certe clausole pericolose che contiene. Abbiamo però ottenuto una vittoria: il Trattato dovrà passare al vaglio dei Parlamenti dei 28 paesi della UE, prima di entrare in funzione. E questo ci fa sperare che venga così sconfitto.

Anche per il TTIP sia gli USA che la UE vorrebbero concluderlo entro la fine dell’anno. Infatti nell’ultimo round  di negoziati tenutosi a Bruxelles dall’11 al 13 luglio, i delegati erano concordi nel voler firmare il Trattato prima della fine del mandato di Obama. Ma l’opposizione al TTIP è forte negli USA sia da parte di Trump che di Hillary Clinton, ma anche in campo europeo, da parte di F. Hollande. La posizione del governo Renzi invece è sempre più schierata  a favore dell’accordo. Ma è in crescendo in tutta Europa la resistenza all’accordo, soprattutto in Germania. Ma anche in Italia si sta rafforzando l’opposizione popolare, come abbiamo visto a Roma nella bella manifestazione del 7 maggio scorso. Questa resistenza al TTIP trova una nuova forza nell’intervento dei vescovi cattolici degli USA (USCCB) e delle Conferenze Episcopali Europee (COMECE) che hanno invitato i cattolici a valutare l’accordo sulla base di una serie di principi etici. “E’ cruciale che tutte le persone abbiano voce in capitolo in decisioni che riguardano le loro vite- scrivono i vescovi. La partecipazione va in particolare applicata ai negoziati del TTIP e per altri accordi commerciali. Questi dovrebbero svolgersi in sedi pubbliche e attraverso processi che assicurino che le voci provenienti dai settori più colpiti della società, possano essere ascoltate e i loro interessi riflessi…. In qualsivoglia accordo devono venire fuori. “ E’ l’opposto di quanto avviene con il TTIP. Possiamo dunque sperare in una vittoria:è troppo presto per dirlo. Dobbiamo continuare a rimanere vigili.

Mi fa invece ancora più paura l’altra testa dell’idra: il TISA, il Trattato sul Commercio dei servizi ,come scuola, acqua, sanità! Si vuole la privatizzazione di tutti i servizi. Purtroppo si conosce poco di questo trattato e se ne parla poco. I negoziati sono in corso a Ginevra in grande segretezza. Vi partecipano i delegati delle 28 nazioni della UE e di 22 altre nazioni tra cui USA,Canada, Australia e Giappone. Gli interessi e gli appetiti sono enormi perché solo negli USA i servizi rappresentano il 75% dell’economia. Mentre la UE è il più grande esportatore di servizi nel mondo con milioni di posti di lavoro.Ora sappiamo qualcosa di più delle trattative in atto tramite le rivelazioni di Wikileaks. Tra i documenti troviamo una lettera dell’ambasciatore USA M. Punke, vice presidente per il commercio degli USA che propone ai negoziatori delle regole per la gestione dei documenti TISA i quali dovrebbero rimanere segreti per cinque anni a partire dall’entrata in vigore dell’accordo.In base ai documenti rilasciati da Wikileaks le nazioni che aderiranno al TISA potranno darsi le loro regole per il ‘mercato dei servizi’, ma dovranno pubblicare con dovuto anticipo queste regole. Questo permetterebbe alle multinazionali di fare i loro giochi. Sulle aziende di Stato, il TISA prevede che queste non possono dare la preferenza ai fornitori locali. Per di più ogni Stato dovrà fornire agli altri una lista di tutte le sue aziende di Stato con tutta una serie di informazioni su di esse. Lo scopo fondamentale di tutto questo è quello di permettere alle multinazionali e alla finanza di mettere le mani sui servizi, dall’acqua alla scuola.www.stop-ttip-italia.net)
“I negoziati stanno procedendo a passo veloce e le parti del negoziato sono impegnate a concludere le trattative entro quest’anno”, così afferma Viviane Reding, attuale relatore della UE ai negoziati TISA. Ho molta paura che con il TTIP in difficoltà per il momento ( e questo anche grazie alla forte resistenza popolare), la Bestia non alzi l’altra testa , il TISA, il più pericoloso e minaccioso dei trattati in discussione. Rischiamo che i servizi fondamentali come quelli idrici, sanitari, educativi… finiscano nelle mani dei poteri economico-finanziari mondiali. Sarebbe la più grande vittoria del mercato globale. Non lo possiamo accettare. Dobbiamo tutti, credenti e laici, metterci insieme per dire No a questa Bestia dalle sette teste che vuole imporre il mercato globale neoliberista.(Per informazioni:
Insieme ce la possiamo fare.

                                                                             Alex   Zanotelli
Napoli,28 luglio 2016

giovedì 21 luglio 2016

CUBAN BEATS ALL STARS (recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti)

recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti
CUBAN BEATS ALL STARS

Le radici della musica cubana si possono trovare nei cabildos, ritrovi sociali auto-organizzati per schiavi africani. Ogni cabildo riuniva una etnia o più gruppi etnici sovraregionali (riferendoci all’Africa, il luogo di origine). I cabildos principali erano tre: gli Yoruba, i Congolesi, i Dahomey. Senza dubbio all’interno di un cabildo erano presenti più culture, che vennero preservate anche dopo l’abolizione della schiavitù nel 1886. Sono poi tre i fondamentali filoni musicali. Il primo è quello del sòn, genere di matrice spagnola e africana, la cui evoluzione ha portato alla nascita negli anni trenta di famosissimi gruppi detti septetos e sextetos. Un secondo filone, il danzon, attinge alla tradizione francese ed è una forma dai toni più sommessi e affidata a una strumentazione composta per lo più di strumenti a corda. Il terzo è infine attribuibile integralmente alla cultura africana. Sicuramente gli strumenti più importanti sono i tamburi, dei quali originariamente ne esistevano 50 tipi diversi; oggi abbiamo bongo, congas e batà. Parimenti importanti sono le claves ed il Cajon. E proprio su questi due ultimi strumenti si innerva il suono “tradizionalmente” moderno dei Nostri. Che germinano dalla strepitosa band (cubana anch’essa) degli Orishas che ad un certo punto si diede diverse esplorazioni musicali per i componenti la stessa. Quattro quinti d’essa confluì nei Cuban Beats All Stars dando vita ad un meltin’ pot musicale davvero caleidoscopico, tradizione cubana con suoni tipicamente urbani, loop elettronici con nenie tribali e con una gamma di temi affrontati quali la critica sociale, la strenua difesa dell’ambiente, la stigmatizzazione dei perbenismi, la difesa dei liberi costumi…con il sottofondo di un suono magico e cangiante come a leggere le pagine più belle di Garcia Marquèz ed il loro clima straniante. Hiram Riverì (voce) Nelson Palacios (voce, violino e piano) Vladimir Nùnèz (percussioni e cori) Dj Tillo (dj e cori), un combo lanciato per sentieri immaginifici in cui la canciòn (genere che trova origini nelle forme della musica popolare spagnola come tirana, polos e boleros a base di melodie intricate e scure conditi da testi enigmatici che nel tempo divennero più esplicitamente sociali quando la canciòn venne “presa” a stumento dai trovadores, un movimento di musici itineranti ispirati direttamente dal popolo minuto) si mescola allo Changuì (stile  musicale che nasce intorno al 1800 nella regione di Guantanamo e si sviluppò nelle raffinerie della canna da zucchero e nelle comunità rurali popolate dagli schiavi –un po’ come lo stevedore, il genere musical-vocale dei portuali americani che darà le basi per il primissimo blues- e che combina la chitarra delle desolate lande spagnole –del tempo- con i ritmi africani e le percussioni di origini Bantu Arara) insieme alle iperboli del polistrumentista Roy Pinatel, ormai il quinto membro fisso, diplomato al conservatorio di Santiago di Cuba ed amante del jazz che si frantuma nel Hip Hop. Per l’appunto l’Hip Hop con i tradizionali stilemi che lo contraddistinguono a dare un confine musical al tutto. E quindi ampie parti vocali di solo parlato, tessiture elettroniche downtempo, beats elettronici, percussioni tribali, litanie chitarristiche catalane...la globalizzazione, quella delle culture però. 

LEONARDO/FINMECCANICA: “ingenuità” al vostro servizio. Moretti vende anche FATA LOGISTIC (da ADL Varese)


LEONARDO/FINMECCANICA: “ingenuità” al vostro servizio
Moretti vende anche FATA LOGISTIC
Drastica riduzione del fuori casa: migliaia di lavoratori rischiano il posto

Prosegue la cura dimagrante dell’azienda parastatale diretta dall’AD nominato dalla forza politica ora in auge, cura dimagrante fatta per tentare di risanare (secondo l’AD) una situazione che stava per portare al tracollo l’intero gruppo. Secondo le teorie dell’AD è necessario mantenere il controllo dell’Alta Tecnologia mentre tutto il resto serve solo per fare cassa. Ora tocca a FATA Logistic che gestisce la logistica e la movimentazione dell’intero gruppo e che M. M. si prepara a vendere al miglior offerente rappresentato solo da multinazionali estere (DHL, FEDEX ecc.), che agiscono all’interno degli appalti attraverso il massiccio uso di cooperative con “dipendenti” con bassi stipendi e con poche tutele, nel silenzio assordante dei soliti sindacati.

Quale sarà la prossima azienda da “sacrificare”? FGS???


Da Frosinone a Varese, dall’Inghilterra all’Italia e da Grottaglie a Torino, sono già iniziati i trasferimenti “forzati” di lavoratori voluti dall’AD allo scopo di riequilibrare le forze da dove c’è poco lavoro a dove, invece, si deve arginare un picco produttivo; In realtà il “picco produttivo” viene creato grazie alla riduzione di centinaia di migliaia di ore di attività “fuori casa”, attività esternalizzate da decenni (sempre per volere di Finmeccanica), che ci sta portando alla massiccia perdita di Know-how e che ora ci presenta un conto salato da pagare: solo in Agusta si parla di 300 lavoratori lasciati a casa in un anno, lavoratori che sono in azienda da decenni e che sarà difficile rimpiazzare visto il loro livello di conoscenza acquisito; un altro contraccolpo da assimilare grazie agli errori di valutazione da parte di chi agisce velocemente ma ragiona molto lentamente.   Le aziende dell’indotto ringraziano per la cortesia.

“…… fornitori non all’altezza della qualità del prodotto richiesta dal cliente; troppi “modelli” sul mercato; enormi investimenti per macchinari mai usati in favore di aziende esterne poco qualificate; abbiamo troppi operai rispetto agli impiegati; un quarto dell’engineering non è in grado di progettare un prodotto di qualità; molti dirigenti hanno fatto carriera non per motivi professionali; ci sono “siti” con dipendenti che non timbrano la presenza; dobbiamo fare massicci investimenti nel militare a discapito del civile; ennesimo cambio del nome necessario per “ripulire” l’azienda; una classe politica inadeguata per questa azienda;....…”

Questo è il pensiero del nostro ben amato AD espresso in modo abbastanza chiaro durante la sua audizione in parlamento ma che non si sta concretizzando con dei buoni  risultati, anzi, tutt’altro:  continuare a criticare la classe dirigente non è il modo migliore per farla produrre; controllare tutti i budget di spesa e rinegoziare tutti gli appalti al ribasso non si traduce in un migliore servizio; investire nel militare quando è il civile che ci tiene in piedi non vuol dire avere intuito negli affari;
Ai nostri errori si stanno sommando gli errori dovuti all’inesperienza e all’arroganza di chi pretende di sapere tutto….. così non si rischia il tracollo?

20 Luglio 2016
ADL – Sindacato di Base

lunedì 18 luglio 2016

TURCHIA, sul colpo di stato militare : La dichiarazione dell'Unione dei Lavoratori Industria alimentare della Turchia (GIDA-IS)


sul colpo di stato militare in Turchia riceviamo, tramite la Rete Sindacale Internazionale di Solidarietà e Lotta, da  Bilge Coban, Direttore dell'International Relations Department del sindacato Union of Food Industry Workers of Turkey(GIDA-IS), Member of the Confederation of Progressive Trade Unions of Turkey(DISK) , e pubblichiamo la

Dichiarazione dell'Unione dei Lavoratori dell'Industria alimentare della Turchia (GIDA-IS) sul colpo di stato militare in Turchia







Tarih:18.07.2016

La soluzione è la protezione dei diritti democratici e delle libertà politiche!
La soluzione è la lotta unitaria di tutte le masse oppresse e proletarie!
Con tutti i colpi di stato militari, la Turchia ha sperimentato la restrizione della libertà e la sospensione dei diritti fondamentali della classe operaia. Sospensione della Costituzione, lo smantellamento dello stato di diritto, la sospensione delle libertà non può essere accettabile, indipendentemente da quale tipo di giunta e mentalità autoritaria provengano. Perché sappiamo che tentativi di golpe militari non sono e non potrebbe mai essere l'antidoto alla politica di un uomo, un partito, perseguita oggi da Tayyip Erdoğan e dal governo dell'AKP.
Inoltre, tali tentativi saranno utilizzati come base per una più rapida e più violenta attuazione di queste politiche.
Erdoğan e il governo dell'AKP, chiamando i loro sostenitori per le strade "contro i congiurati", cercheranno di utilizzare questa situazione per porre riparo alla loro reputazione scossa - il risultato di politiche interne ed esterne opportunistiche e incoerenti - e per raggiungere le loro mira reazionarie e fasciste .
E 'chiaro che tutti i cittadini di Turchia delle diverse nazionalità e credenze, messi in una posizione tra l'incudine e il martello, non possono essere sottoposti ad una scelta solo tra un colpo di stato militare e una dittatura di un uomo, di un partito unico.
L'unica scelta e il percorso per la liberazione del popolo è la creazione di una Turchia che sia veramente laica e democratica. La via d'uscita da questo assedio antidemocratico è la salvaguardia dei diritti democratici e delle libertà politiche. La soluzione è la lotta per la democrazia di un popolo.

Seyit Aslan, 
Presidente 
DISK-GIDA-IS (Union of Food Industry Workers of Turkey)

venerdì 15 luglio 2016

FRANCIA Strage a Nizza: camion sulla folla e spari, almeno 73 morti. «Attentato» (da Corriere.it)


http://www.corriere.it/esteri/16_luglio_14/francia-camion-folla-nizza-almeno-15-morti-diversi-feriti-1f01662a-4a09-11e6-8c21-6254c90f07ee.shtml?refresh_ce-cp

Intorno alle 22.30 il mezzo ha investito le centinaia di persone assiepate sul lungomare per i fuochi d'artificio del 14 luglio. Scambio di colpi con la polizia, ucciso il conducente
di Salvatore Frequente, Stefano Montefiori e Paolo Ottolina,

Una nuova strage ha colpito la Francia. Stavolta a Nizza, nel sud del Paese, dove giovedì sera un camion ha travolto la folla sul lungomare, la celebre Promenade des Anglais, gremita durante i fuochi d’artificio per i festeggiamenti del 14 luglio, festività nazionale oltralpe. La Procura di Nizza, contattata da France Tv, stima che i morti potrebbero essere 60, oltre a un centinaio di feriti. Molti i corpi a terra coperti da teli blu. Secondo le testimonianza, il camion è salito sulla Promenade procedendo a forte velocità, 60-70 chilometri orari, e ha proseguito la sua corsa falciando la folla per almeno 300 metri. Quello che sembrava un incidente in breve ha preso le sembianze di un nuovo attentato terroristico. Testimoni hanno riportato che dal mezzo pesante partivano anche spari contro la folla. «Sono state colpite anche persone che erano in spiaggia» ha detto un testimone. La polizia, secondo quanto si apprende, ha risposto al fuoco: ucciso il conducente del mezzo pesante, mentre un complice sarebbe ancora in fuga. Sul camion, secondo una fonte locale citata da “Le Figaro”, sono state trovate molte armi, fucili e granate.

giovedì 14 luglio 2016

Puglia, scontro tra treni : Ipocriti !! Tutti……. giornali, televisioni, politici ! - Comunicato della redazione di Ancora IN MARCIA del 14 LUGLIO 2016

ancora
IN MARCIA
Rivista mensile dei macchinisti dal 1908

- COMUNICATO -
Ipocriti!! Tutti……. giornali, televisioni, politici!
Dobbiamo ancora una volta registrare un metodo tutto italiano di volontà di risolvere i problemi di
sicurezza dei trasporti solo dopo che avvengono gravissimi incidenti come quello appena accaduto in
Puglia dove due treni regionali si sono scontrati frontalmente causando la morte di 25 persone e il
ferimento di oltre 50, tranne poi dimenticare tutto appena si spengono i riflettori.
Stride vedere due mezzi nuovi, dotati dei moderni sistemi di sicurezza a bordo, ma del tutto inutili e
inutilizzabili se usati su una linea non attrezzata, con circolazione affidata al preistorico " BLOCCO
TELEFONICO.
E' quantomeno assurdo che il Ministero dei Trasporti autorizzi certi sistemi di circolazione in deroga alle più elementari norme di sicurezza. Lo scorso anno affrontammo proprio tale incongruenza dalle pagine della nostra rivista lanciando l'allarme e chiedendo un intervento risolutivo dell'Agenzia Nazionale per la Sicurezza Ferroviaria (ANSF), nulla è stato fatto da allora, mentre continuiamo ad ascoltare le solite frasi che parlano di “errore umano”.
Oggi, quelle 25 vite umane sarebbero salve se fossero stati fatti investimenti per mettere in sicurezza
tante altre linee, gestite privatamente e in concessione, con rischiose deroghe normative.
Si preferisce, invece, continuare a cambiare Manager con lauti stipendi senza che mai nessuno di loro
paghi per i loro piani fallimentari.
Si preferisce innalzare l’età pensionabile dei macchinisti ed dei ferrovieri a 70 anni e si pretende che non sbaglino mai!
Si preferisce aumentare loro le ore ed i carichi di lavoro per poi avere un capro espiatorio.
Non ci stiamo a questa retorica!
Chiediamo rispetto per i morti, e rispetto per tutti coloro che ogni giorno cercano di far funzionare la
ferrovia nonostante dirigenti incapaci e politici che non pagano mai!
Esprimiamo tutto il nostro cordoglio ai familiari delle vittime, ai familiari dei colleghi coinvolti e l'augurio di una pronta guarigione ai numerosi feriti, come macchinisti siamo i primi a sentire il peso di un disastro ferroviario tanto grave quanto evitabile.

La redazione di Ancora IN MARCIA.
14 LUGLIO 2016

Incidente Ferroviario Puglia [12/07/2016], CAT : Quando lo stato latita e si guarda solo al risparmio!

Quando lo stato latita e si guarda solo al risparmio!

Innanzi tutto non vogliamo usare parole fredde come cordoglio, vogliamo unirci in un grande abbraccio e circondare tutte le persone colpite dal dolore per il disastroso incidente ferroviario occorso in Puglia. 
Le immagini e le notizie che ci arrivano hanno lasciato tutti noi profondamente sconcertati e commossi, una commozione mista a rabbia.
Ci dispiace constatare che il totale disinteresse istituzionale per le priorità per le quali come categoria sono anni che ci battiamo:
  • garantire sicurezza ad utenti e dipendenti su tutta la rete.
  • contrastare privatizzazioni che mirano unicamente al profitto al di fuori di regole comuni.
  • turni umani per il personale dell'esercizio.
sia molto probabilmente concausa della tragedia.
foto1
Mentre arrivano notizie frammentarie e allarmanti di uno scontro fra 2 treni su una linea a binario unico in Puglia fra Ruvo di Puglia e  Corato, il presidente del consiglio Renzi lancia messaggi tranquillizzanti dicendo che non si fermerà senza arrivare alla verità.
foto2
Quei treni della Ferrovia Nord Barese erano relativamente nuovi e questo indica che investimenti orientati al confort della clientela erano stati effettuati, una bella operazione d'immagine!
Ma la linea è gestita con sistemi di sicurezza di oltre cinquant'anni fa. Liberalizzare il trasporto ferroviario con il mero obbiettivo di inseguire economie privatistiche porta solo a disastri.
Anche questa volta tenteranno di archiviare il tutto dietro al solito "errore umano" ma la verità è che se la politica non inizia a ragionare seriamente sui trasporti definendo regole eguali per tutti gli operatori del settore sia per quanto riguarda la sicurezza dell'infrastruttura che per l'orario di lavoro del personale, questi disastri sono destinati a ripetersi.
La protezione civile parla di 12 morti, altre notizie parlano di oltre 20 morti accertati e di circa 35 feriti.
Difficoltà per le operazioni di soccorso sulle prime 2 vetture dei rispettivi treni che si sono sgretolate nel devastante impatto.
foto3
Non ci possono essere cittadini di serie A e cittadini di serie B, lavoratori di serie A e lavoratori di serie B
La tecnologia attuale avrebbe potuto evitare questa strage, e chi ha privilegiato investire in 'altro' piuttosto che in sicurezza è colpevole!
Il GOVERNO ed il Primo Ministro Renzi DEVONO essere più concentrati a garantire a TUTTI I CITTADINI ITALIANI le stesse opportunità per viaggiare in TOTALE SICUREZZA.
In queste drammatiche occasioni la sicurezza in ambito ferroviario torna tristemente alla ribalta e riguarda la società intera e non solo i ferrovieri. Noi ci uniamo come ferrovieri e come cittadini al dolore degli amici pugliesi.
Approfondimenti.
http://www.associazionecat.it/
Nastrino lutto
 

Per gli amici pugliesi

"Quando un uomo muore,
non viene strappato un capitolo dal libro,
ma viene tradotto in una lingua migliore."
[John Donne]

Stati Uniti,superpotenza in crisi.Dopo i tragici fatti di Dallas (da pennabiro.it)

http://www.pennabiro.it/stati-unitisuperpotenza-crisi-tragici-fatti-dallas/ 

Stati Uniti,superpotenza in crisi.Dopo i tragici fatti di Dallas

di Osvaldo Pesce
I tragici fatti di Dallas sono avvenuti a pochi mesi dalle elezioni americane.Le elezioni presidenziali di novembre in USA sono particolarmente importanti, per i contenuti emersi nella campagna e il dibattito che hanno sollevato in una fase di grave crisi economica e sociale del paese. Il miliardario ‘politicamente scorretto’ Trump ha avuto facile successo nelle primarie contro dei candidati insulsi perché ha posto due temi chiave: il lavoro che manca e il deficit commerciale americano con la Cina, i paesi Opec e l’UE; gli avversari Sanders e Clinton hanno dovuto inseguirlo su questo terreno.
Wall Street è riuscita a trasferire la crisi finanziaria sull’Europa, mettendone a dura prova le banche e i debiti pubblici; ma la crisi è strutturale e globale e non si supera. Obama ha gestito gli interessi industriali (auto, shale oil and gas) e soprattutto ha finanziato le banche. Il loro salvataggio costò alla Fed dal 2007 al 2009 7.700 miliardi di dollari, metà del PIL, facendo guadagnare ad esse 13 miliardi, mentre quello della Chrysler, più o meno l’unico intervento pubblico nell’industria statunitense, costò solo 6 miliardi (Corriere 2.12.2011 e 30.3.2009). Quindi è chiaro che si butta denaro pubblico nelle banche molto più che nel salvare industrie, meno che mai nel sostenere i redditi dei lavoratori e delle minoranze.
La società americana è in declino: la povertà e la disoccupazione reale crescono, i conflitti sociali e razziali non sono affatto risolti (né coi lavoratori poveri, né con gli afroamericani né coi latinos), e questo è in drammatica evidenza dopo le uccisioni di neri, le proteste, il sanguinoso attacco di Dallas.
Interi quartieri sono abbandonati al degrado (e anche intere città, come New Orleans, devastata da Katrina, o Detroit dimezzata dalla crisi dell’auto). Dai dati di inizio 2015, il 39% dei lavoratori guadagna meno di 20.000 dollari (la soglia della povertà per una famiglia di 4 persone è 23.000 dollari): solo il 44% degli occupati lavora 30 o più ore settimanali; degli americani in età lavorativa 8,7milioni sono ufficialmente disoccupati e 92,9 milioni sono “non forza lavoro”(casalinghe, studenti, pensionati, militari, “forze di lavoro potenziali”, disoccupati da molto tempo).
Un quarto degli americani hanno più debiti del valore di quanto possiedono, il 47% della popolazione non può permettersi il pronto soccorso, 46 milioni di persone ricorrono ai banchi alimentari (ora proibiti in alcuni stati, Oklahoma, California ecc), un americano su sette rischia la fame. Chi vive nella precarietà economica abbandona l’auto non avendo 400 dollari per ripararla, perde la casa col mutuo che non riesce a pagare (e la sfascia prima di lasciarla alla banca); in California c’è gente che vive nelle aiole, a New York la polizia ha identificato 80 accampamenti di senzatetto ecc.
Lo 0,1% delle famiglie americane ha ricchezza pari a quella del 90%. Undici milioni di famiglie vivono e lavorano negli Stati Uniti illegalmente, un milione e mezzo vivono con meno di due dollari al giorno; nel 2015 un bambino su cinque usufruiva di buoni pasto e 2 milioni e mezzo vivevano in rifugi, per le strade, nelle macchine, o in campi senza alcuna tutela, a causa della povertà e delle violenze familiari. (lettera43, Avvenire 17.11.2014 ubiminor.org 27.11.2014)
La rabbia e l’opposizione crescono: secondo Pew Research per gli americani le misure del governo sono inefficaci per la classe media (72%) e le piccole imprese (68%), e hanno fatto fare “un grosso affare” alle grandi banche e alla finanza (52%).
Trump fa leva sulla mancanza di lavoro per propagandare il suo isolazionismo (“America first”) soprattutto verso i bianchi poveri e il ceto medio compresso verso il basso.Afferma che ci vuole più sicurezza, non si può lasciar entrare gli immigrati né dare la cittadinanza a chi nasce nel paese, va rafforzata la barriera col Messico;anche l’atto terroristico anti-gay a Orlando ha giovato alle sue sparate anti-islamici e a favore del libero commercio delle armiBisogna cambiare i rapporti con la Cina “anche a rischio di una guerra commerciale” e riportare a casa le industrie: “alle aziende che esportano la produzione in Messico dirò: metterò un dazio del 35% su ogni prodotto che venderete in America”. Ci si deve sganciare dagli impegni in Medio Oriente – “le nostre azioni in Iraq. Libia e Siria hanno aiutato l’Isis” – e sbarrare l’accesso ai musulmani. Ci vogliono più lavoro e salario con più esenzioni fiscali, tasse al 15% del reddito d’impresa grande o piccola che sia, più petrolio statunitense e niente tutela ambientale (” non si può distruggere la competitività delle fabbriche americane per prepararsi a un inesistente riscaldamento globale”), meno debito pubblico, niente tutele sanitarie e far contribuire gli alleati NATO ai costi della loro difesa.
Ai suoi comizi crescono le contestazioni degli avversari; è la prima volta che questo accade, finora avvenivano alle convention del proprio partito: si ricorda ancora quella alla convention democratica del 1968 a Chicago, dopo gli assassinii di Martin Luther King e di Robert Kennedy, contro Humphrey, la guerra nel Vietnam e il razzismo.
Hillary Clinton dichiara: “Nessuna banca è troppo grande per non fallire e nessun manager è troppo potente per non andare in prigione”, e si tira dietro ai comizi l’ex senatore Barney Frank, il coautore – dopo i disastri del 2008 – della riforma Dodd-Frank dei mercati finanziari (deregolamentati proprio da Bill Clinton); ma (su 120 milioni raccolti) alla fine di dicembre 2015 circa 21,4 milioni di dollari per la sua campagna elettorale provenivano da donazioni di hedge fund, banche, compagnie di assicurazione e altre società di servizi finanziari; in tutto, donatori di Wall Street e altre società finanziarie le hanno dato 44,1 milioni di dollari, più di un terzo del totale (gli speculatori George Soros e Donald Sussman le hanno versato rispettivamente 8 e 2,5 milioni, la sostiene anche il finanziere miliardario Warren Buffett).
Promette di opporsi a qualsiasi nuova tassa per le famiglie che guadagnano meno di 250 mila dollari l’anno, di volere un minimo salariale di 12 dollari l’ora, parità salariale tra uomini e donne, maggiori crediti d’imposta per le famiglie disagiate e diritto all’asilo nido per i figli dei lavoratori, di promuovere i diritti delle donne, delle minoranze, degli immigrati e dei gay, ma fatica a presentarsi come una donna comune, è troppo ricca e influente: ha incassato più di 3,7 milioni di dollari da discorsi a pagamento organizzati da banche e società finanziarie dal 2013 ad oggi (e il marito di Chelsea traffica in hedge fund, con clienti legati ai Rotschild e alla Goldman Sachs, la più potente banca d’affari).
L’anno scorso la stampa americana ha svelato che circa due milioni di dollari di fondi, raccolti dalla Fondazione Clinton sin dal 2001, venivano da donazioni di Arabia Saudita, Qatar, Kuwait e Oman, altri donatori erano Algeria, Brunei, gli Emirati; alla campagna di Hillary contribuiscono per 270 mila dollari lobbisti che da anni curano gli interessi di compagnie petrolifere, del gas e del carbone. Conseguentemente, è molto più interventista di Obama in Medio Oriente, e tace sul controverso oleodotto Keystone XL, che dovrebbe portare petrolio dal Canada verso le raffinerie americane: non intende abbandonare le fonti fossili (lo shale oil and gas) “ancora fondamentali per lo sviluppo, in particolare in alcune aree” né il nucleare.
Sanders invece promette pesanti tasse sulle attività finanziarie, una netta separazione tra banche commerciali e di investimento (cioè dedite alla speculazione), lo smantellamento delle assicurazioni sanitarie di Obama e l’abbassamento di prezzo dei farmaci per finanziare le cure mediche per tutti a carico dello Stato. Vuole salvaguardare il clima con una carbon tax e la moratoria nucleare. Il suo programma include la lotta alle diseguaglianze di reddito e ricchezza e un sistema di sicurezza sociale, la guerra come l’ultima opzione; l’istruzione universitaria gratuita, la creazione di lavoro pagato in proporzione alle necessità di una vita familiare dignitosa, alloggi a prezzi accessibili, sostegno all’economia rurale; una politica di immigrazione equa e una giustizia senza pregiudizi razziali, più potere ai nativi americani, tutela dei disabili e dei veterani, diritti ai gay e transessuali.
Ha detto: “prometto che sotto un’amministrazione Sanders non vedrete mai un ministro del Tesoro che viene dalla Goldman Sachs”, come fu Rubin sotto Bill Clinton. Non molla la campagna, sostenuto dai giovani, anche se ha metà dei delegati rispetto alla Clinton: ha rifiutato la richiesta di abbandonare fattagli da Obama e Hillary, vuole una convention divisa per combattere sul programma; è disposto a votare la Clinton solo per sbarrare la strada a Trump se diventasse davvero il candidato repubblicano per novembre. Si dichiara socialista, E’ stato eletto senatore da indipendente nelle liste democratiche, se gli sbarrano la strada, come è probabile, vorrebbe fare un partito nuovo della sinistra attraverso una ‘convenzione del popolo’.
La campagna è sempre più dura, con scontri fra i candidati e nelle piazze; fra i repubblicani Trump è a corto di fondi, e si troverà contro nuovi candidati che però dovranno affrontare i temi gettati in campo da lui; se sarà sconfitto potrebbe presentarsi come indipendente. Entrambe le convention saranno quindi combattute, chiunque sarà il vincitore dovrà esprimersi riguardo sia all’alta finanza, sia all’isolazionismo o meno, sia a politiche sociali, e chi infine sarà elettoPresidente dovrà tentare di rispondere al malcontento popolare emerso nelle piazze, ma di fatto il programma di governo sarà quello voluto dall’1% di straricchi e da Wall Street.
Da qui a novembre la strada è ancora lunga, potrebbero avvenire molti imprevedibili sviluppi, anche nelle relazioni internazionali: sono in gioco i rapporti con la Cina e il suo progetto di ‘nuova via della seta’; con i paesi del petrolio coinvolti dalle guerre e danneggiati dallo shale oil; i trattati economici con gli alleati in Europa e Asia sono in stallo (TTIP/TISA e TPP).Obama preme in tutti i modi sulla Unione Europea per la firma del TTIP prima delle elezioni della nuova presidenza.Negli Stati Uniti e qundi nel mondo niente sarà come prima.

mercoledì 13 luglio 2016

Brexit: tanto clamore per nulla. Come prima. Anzi, peggio di prima! Intervista al prof.Giuseppe Sacco (da pennabiro.it)



Brexit: tanto clamore per nulla. Come prima. Anzi, peggio di prima! Intervista al prof.Giuseppe Sacco

da pennabiro.it


Per gentile concessione del prof.Giuseppe Sacco,Ordinario di Relazioni e sistemi internazionali,pubblichiamo di seguito una sua recente intervista tratta dal sito Critique of the new Century in cui  oltre ad un’ampia analisi dei motivi e delle conseguenze del voto al referendum britannico,vengono toccati vari aspetti storici e di politica internazionale
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Il referendum del 23 giugno farà molto danno alla UE ed al sogno unitario.Ma non libererà l’Europa dal malevolo e controproducente coinvolgimento britannico.
Salvatore Santangelo – Con l’opinione mondiale che sembra ancora sotto shock per il risultato a sorpresa, è possibile, secondo lei, fare una valutazione obiettiva del referendum sull’uscita del Regno Unito dall’UE?
Giuseppe Sacco – L’emozione con cui, in primo luogo in Inghilterra, è stato accolto il risultato è certamente un evento in sé; e un evento che vale la pena di sottolineare. Ed ancor più le urla e il furore che hanno caratterizzato tutta la campagna. Ma dove è finito il sangue freddo britannico? Dove è finita la loro capacità to keep the upper lip stiff , l’unica dote che gli Europei – Italiani e soprattutto Tedeschi – hanno davvero ragione di invidiare? E dove è finita la lezione di Shakespeare? Di fronte a tutto questo chiasso mi vien voglia di dire, come Macbeth:
it is a tale
told by an idiot, full of sound and fury,
signifying nothing”.
Nonostante tanta agitazione, mi sembra che si tratti, in definitiva, di un evento di modesta importanza: come di fatto è. Perché non è ancora detto che davvero il Governo di Londra porti avanti con serietà la complessa procedura che dovrebbe sancire formalmente il distacco. Già 24 ore dopo il momento in cui sono stati resi noti i risultati, Cameron ha detto che l’avvio della procedura di divorzio potrà aspettare sino a dopo la scelta del suo successore, ad Ottobre. Tra quattro mesi! E i leaders del “leave” – che già litigano tra di loro su chi dovrà installarsi a Downing Street – hanno cercato di rimandare ad una data ancora più lontana ed incerta, addirittura a dopo un nuovo negoziato con Bruxelles. E’ già chiara insomma l’intenzione britannica di tirare a perdere tempo, e di avviare una nuova eterna trattativa in cui mendicare – ma sempre con l’aria di fare un piacere ai paesi fondatori della UE – un accordo per godere dei privilegi di essere nell’Unione, senza, ovviamente, pagarne il prezzo in termini di doveri e responsabilità.
E poi, che altre concessioni potrebbe chiedere il Regno Unito? Praticamente è già esente da ogni obbligo. Più di qualsiasi altro paese membro. Non solo non è vincolato alla Moneta Unica e al Trattato di Schengen in materia di libera circolazione. E’ anche fuori dalla giurisdizione della Corte Europea di Giustizia, che può capovolgere le leggi degli altri paesi membri, ma non quelle britanniche, perché Londra – rifiutando ancora di prendere atto che più di due secoli fa c’è stato, in Europa, un evento che si chiama Rivoluzione francese – si rifiuta di sottoscrivere la Carta dei diritti dell’Uomo. E in generale Londra ha il privilegio di poter non applicare la legislazione UE in materia di Giustizia e di Affari Interni. Per di più, la Gran Bretagna già gode di un sostanziale sconto sulla tariffa per abitante con cui la Germania, l’Italia e la Francia contribuiscono al bilancio della UE. Quali altre concessioni dovrebbe ottenere il governo inglese, per poter organizzare tra due anni un altro referendum tra Leave e Remain?Insomma, di fronte a tutto questo clamore demagogico, l’unica novità seria e meritevole di attenzione mi sembra invece il fatto che l’Europa abbia preso una posizione del tutto opposta, dicendo a Londra di sbrigarsi ad avviare la procedura di divorzio, e ad andarsene. E’ stato dato così un segno di insolita vitalità e dignità. E che poi siano stati i Sei paesi fondatori a farlo, è ancora più positivo.
Salvatore Santangelo – Ma allora come si spiega lo sconcerto e l’allarme che. sin delle prime ore, è rimbalzato su tutti i media del mondo?
Giuseppe Sacco – Si spiega con il fatto che il voto degli Inglesi ha assunto un aspetto quasi sacrilego. Esso infatti segna una evidente rivolta dell’opinione pubblica non solo contro la casta dei politici di professione, ma anche contro l’opinione “pubblicata”, che ancora una volta si è comportata in maniera grottesca.
Che dire, ad esempio, del Wall Street Journal, che ha pubblicato un articolo in cui si diceva addirittura che il voto a favore o contro l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea era la decisione più importante presa dal regno britannico fin dal momento in cui un suo re si staccò dalla Chiesa cattolica. Peccato che tra allora e il Brexit, gli Inglesi abbiano combattuto quattro o cinque guerre civili, fatto una rivoluzione e una controrivoluzione, tagliato la testa al re, instaurato la Repubblica, proclamato Cromwell Lord Protettore, creato l’America con i suoi Padri Pellegrini, conquistato un impero che comprendeva circa un terzo delle terre emerse, favorito occultamente la Rivoluzione francese, promosso ben otto coalizioni per combattere Napoleone, cambiato il mondo con la rivoluzione industriale, vinto due guerre contro la Germania……Si potrebbe pensare che certi media prendano i loro lettori per imbecilli, e come tali li trattino. E che credono veramente di poter continuare a raccontare loro fandonie su fandonie. Basterà notare che si tratta degli stessi media che hanno battuto a più non posso la grancassa secondo la quale Saddam Hussein disponeva di armi di distruzione di massa o addirittura della bomba atomica.
Salvatore Santangelo – C’è insomma nel voto inglese a favore dell’uscita dalla UE, un elemento di rivolta contro le “verità ufficiali”, e contro i media che se ne fanno portatori?
Giuseppe Sacco – C’è stata certamente una componente di rivolta contro un establishment che crede di poter continuare a legittimare il proprio potere raccontando panzane sempre più colossali.  E panzane che sono diventate sempre meno verosimili da quando il “socialismo realizzato” ha cessato di esistere.Finché ci sono stati al mondo due blocchi politicamente ed ideologicamente contrapposti, sono infatti esistite anche due contrapposte “verità”. E ciascuna di esse cercava di conquistare proseliti nel campo dominato militarmente dall’altra superpotenza. A questo fine, la propaganda di ciascuna delle due parti cercava di avanzare argomenti che, se non veri, almeno fossero verosimili, fossero credibili. Per questo motivo si restava abbastanza vicini, se non alla realtà dei fatti, almeno alla percezione che il pubblico ne poteva avere direttamente. Ma da quando è venuto meno uno dei due rivali politico-militari, il campo vincitore ritiene ormai di poter spacciare qualsiasi bufala come una verità in cui far ciecamente credere i suoi sudditi.  E la prego di notare che non sono un nostalgico che sta parlando bene del comunismo. Sono un occidentale che sta parlando bene della concorrenza, tema sovranamente liberale.Churchill disse una volta che quando inizia una guerra, la prima vittima è la verità. Ma negli ultimi anni è successo il contrario. E’ accaduto che, con la fine della Guerra Fredda, si è creato un clima di conformismo generalizzato. Un clima che ha portato alla nascita di una sorta di linguaggio politicamente corretto che è proibito, e pericolosissimo non rispettare. L’Ovest vittorioso ha dato vita ad un Westspeakpeggiore del newspeak orwelliano. Lasciamo da parte, per un momento, la “verità”, che è parola troppo grossa, e parliamo di un sistema dell’informazione decente e credibile. E’ sempre stato noto che tale sistema è una precondizione essenziale perché esista una società libera e aperta al confronto delle idee. Ma ora – nel mondo dell’informazione globalizzata e trasformata in struttura di potere – vediamo che, se non c’è uno scontro a tutto campo tra ideologie diverse, e sistemi socio-politici fondati su tali ideologie, anche la produzione e il confronto delle idee rischia di venir meno, e ogni pensiero autonomo e creatività individuale rischia di essere appiattita e cloroformizzata.
Salvatore Santangelo – Quindi il voto a favore dell’uscita nel Regno Unito dall’Unione Europea segna, secondo lei, una rivolta contro le menzogne con cui la classe dirigente occidentale, e in questo caso britannica, cerca di mascherare il fallimento del modello neoliberale applicato negli ultimi 35 anni e l’impoverimento generalizzato della popolazione che esso ha determinato sia in Inghilterra che negli Stati Uniti?
Giuseppe Sacco – Va detto che anche il campo favorevole al Brexit ha condotto anch’esso una campagna assolutamente menzognera. Un osservatore inglese, molto acuto e molto bene informato, che posso citare solo mantenendo l’impegno all’anonimato, è giunto a dire che gli argomenti utilizzati dagli esponenti del campo antieuropeo avrebbero fatto invidia al Dottor Goebbels.Le menzogne dell’altro campo, quello pro-europeo, erano semplicemente l’insieme dei luoghi comuni accumulati negli ultimi cinquant’anni dalla opinione pubblicata di tutto l’Occidente: era quello che qualche anno fa veniva chiamato il “pensiero unico”. E’ il cosiddetto, “luogo-comunismo”: un’ammorbante e irrespirabile cumulo di slogan fritti e rifritti che tende a schiacciare sotto il suo rullo compressore qualsiasi opinione individuale, e che cancella ogni speranza del cittadino pensante di poter in qualche modo influire sul proprio destino e su quello del proprio paese.
Salvatore Santangelo – C’è dunque all’origine di questo voto una frustrazione, una sensazione di impotenza, un’esasperazione generalizzata del pubblico britannico?
Giuseppe Sacco – Il voto a favore del Brexit si inserisce indubbiamente in una situazione psicologica negativa, di fallimento e di impotenza, comune a tutto l’Occidente, e determinata dal trentacinque anni di globalizzazione. Questa ha avuto in Occidente conseguenze sociali disastrose. Da un lato ha portato alla nascita di une élite stra-miliardaria del denaro e del potere, i cui componenti non hanno più nessuna connessione con i Paesi di origine. Il capitalismo nazionale che Lenin credeva avesse raggiunto, con l’Imperialismo, la sua fase suprema, non esiste più.C’è invece un capitalismo globale che ha svuotato di senso e di ruolo gli Stati  e le Nazioni. E che soprattutto sta spingendo l’insieme della popolazione in una condizione di ristrettezze economiche estreme e crescenti; e soprattutto in una condizione di assenza di ogni prospettiva migliore per l’avvenire.Il cosiddetto “sogno americano”, l’idea che lavorando duro si potesse cambiare classe sociale, è completamente morto. Ed è stato sostituito dalla prospettiva che, a meno di non essere uno dei pochissimi che riescono in gioventù a fare un colpo fortunato e a diventare così miliardari, si finisca tra le decine di migliaia di senzatetto alcolizzati e spesso drogati che girano, come mandrie disorientate e senza meta, nelle grandi città americane; in particolare in California, già terra della “corsa all’oro” ed oggi affollata di giovani illusi dal mito delle start up.E questo ha varie conseguenze, alcune delle quali – e neanche le più drammatiche – sono il senso della perdita di identità; la rabbia contro l’establishment che ha colto di sorpresa l’America col fenomeno Trump; l’esasperazione di massa apparentemente incomprensibile che da mesi sconvolge la Francia. E che, col referendum britannico, ci ha fatto vedere un’onda di fondo che più che bocciare l’Europa, ha voluto “sfasciare tutto”, così come nell’Agosto del 2010 una folla inferocita sfasciò e saccheggiò tutti i negozi di Oxford Street e di Regent Street a Londra. O meglio: non tutti i negozi…. perché a nessuno venne in mente di sfondare le vetrine delle librerie. Quella folla inferocita non sapeva veramente che farsene di altre chiacchiere. Non ne sentiva davvero nessun bisogno.
Salvatore Santangelo – Quei disordini presero tutti di sorpresa. Fenomeni di questo tipo sono infatti ricorrenti in Francia, ma insoliti in Inghilterra. E la loro origine, le loro motivazioni non sono state mai state analizzate a fondo, né davvero spiegate.
Giuseppe Sacco – E’ vero. Sulle due sponde della Manica questa rabbia e questa esasperazione presentano oggi un’insolita analogia. E in definitiva si rivolgono, paradossalmente, contro il sogno europeo, che è stato per mezzo secolo il vero punto di superiorità politica del vecchio continente rispetto all’America, che – dopo il breve passaggio di Kennedy alla Casa Bianca – non ha avuto più nessun sogno da offrire.Ma se l’assenza di ideali prende sul continente forme come in Francia quelle del Front National che l’establishment in definitiva è finora riuscito a tenere ai margini del potere, le cose stanno diversamente nel regno britannico, dove anche una sostanziosa parte della classe dirigente si scaglia apertamente contro l’Europa.  La spiegazione sta nel fatto che,  nonostante il ruolo di Londra nella globalizzazione finanziaria, che ne ha fatto la città più ricca e più cara del mondo, la composizione della classe privilegiata che domina il resto dell’Inghilterra è diversa da quella che domina la capitale, che infatti ha votato “remain“, e che si permette snobberie globalizzanti come un sindaco musulmano. Fuori di Londra, c’è  infatti nella classe dominante Britannica una componente pseudo aristocratica, che è molto più antica, e che risale addirittura a Guglielmo il bastardo, ed alla spartizione che un migliaio di anni fa egli fece delle terre da lui conquistate tra i capi tribù suoi seguaci. Ed è questa la classe da cui proviene Cameron.
Salvatore Santangelo – Cameron è stato quindi sconfitto ed abbattuto dalla sua stessa classe sociale?
Giuseppe Sacco – No, naturalmente. La sua classe sociale è troppo poco numerosa per pesare in maniera determinante in un referendum. Cameron è stato colpito e affondato dal voto di milioni di esclusi che hanno visto la loro condizione peggiorare negli ultimi 35 anni. La classe pseudo-aristocratica ha solo aggiunto i suoi voti. Come tutti hanno notato, Cameron è uscito sconfitto dai propri errori, dal fatto di essere un politico e uno stratega molto mediocre. Ed è qui viene in luce la responsabilità della sua classe di origine.In una società profondamente stratificata come quella britannica, dove si accede alle scuole di qualità sulla base della condizione sociale della famiglia, e poi dalle scuole di élite si accede direttamente alle cariche pubbliche, la selezione del personale politico finisce per essere fatta su una base estremamente ristretta. Il criterio meritocratico passa insomma in secondo piano rispetto all’appartenenza e alla fedeltà alla classe dominante. Così, al fine di perpetuare il sistema sociale esistente, non sono i migliori ad emergere. Cameron è il frutto di questa selezione all’incontrario. Non si può quindi meravigliare se rischia di passare alla storia come il premier che ha staccato Londra dall’Europa e, nel caso la Scozia decidesse invece di restare, come il politico che ha addirittura distrutto il Regno Unito.La Brexit per cui tanti si stracciano tardivamente le vesti è quindi anche il frutto dell’ostinazione di una piccola categoria sociale a mantenersi al potere costi quel che costi. Così come ha fatto in passato, per un arco di tempo che – tranne  pochi e provvisori scossoni – è durato quasi mille anni.Mille anni sono un’enormità, certo. Eppure l’Inghilterra è rimasto uno dei paesi più statici dal punto di vista sociale. Lo raccontano bene i romanzi di Jean Austin, dove ci si innamora e ci si sposa sempre tra cugini, in modo da non dividere i patrimoni. Ed uno studio recente dell’OCSE ha messo in luce che ancora oggi, nel Regno Unito, poco meno del novanta per cento della popolazione occupa una posizione sociale di livello pari a quella dei propri genitori. In Francia, al contrario, questo  dato è solo del 31%. In Italia, mi consenta di dire, questo indicatore della mobilità e/o staticità sociale è stato simile a quello della Francia tra la fine della guerra e la seconda metà degli anni 60. E poi, dopo il 68, è cresciuto progressivamente avvicinandosi oggi a quello dell’Inghilterra.A differenza dell’America, dove la classe privilegiata è sempre più composta da nuovi ricchi che hanno fatto la loro fortuna in campo tecnologico e soprattutto finanziario speculativo, in Inghilterra – dove non c’è stato il fenomeno Silicon Valley – la ruling class è composta non solo dall’ambiente della City di Londra, ma anche da una classe di country gentry, che la riforma dei rotten boroughs nel 1832 non riuscì – checché ne dica la storia “ufficiale” – a distruggere: una classe anzi con cui il promotore della riforma, il premier Charles Grey, alla fine dovette fare un compromesso.Questa composita aristocrazia della terra del danaro, non tende come i miliardari americani ad accumulare sempre maggiori fortune da rinchiudere nelle casseforti della Svizzera e dei paradisi fiscali. Certo! Neanche essa è immune dall’universale sentimento di avidità che domina il mondo contemporaneo, e il cui esempio più volgare e clamoroso sono gli oligarchi russi, che non a caso vedono l’Inghilterra come la loro Terra Promessa. Ma la ruling class britannica si sente soprattutto legittimata al privilegio da una tradizione di dominio politico e sociale che risale al Medioevo, e che la legittima a un ruolo dirigente, ai propri occhi, e agli occhi di molti sudditi di Sua Maestà. Essa perciò intende  rimanere alla guida del paese anche indipendentemente e contro gli interessi economici generali del Regno Unito. Ha sempre comandato, e vuole continuare a comandare. Il suo obiettivo è puramente di conservazione del potere. Molto diverso in questo dall’obiettivo di accumulazione delirante di ricchezza che caratterizza la classe nata e cresciuta con la globalizzazione. E ciò ha fatto si che votasse e facesse votare per il “leave”, nonostante la Gran Bretagna abbia largamente tratto profitto, e avrebbe continuato a trarre profitto, dall’appartenenza all’Europa.
Salvatore Santangelo – Quindi Lei, se fosse stato Inglese, avrebbe votato per restare?
Giuseppe Sacco – Sarebbe dipeso dalla classe sociale! Se fossi un professore universitario, un pensionato, una persona che deve fare affidamento sul sistema sanitario pubblico, probabilmente si:  il mio interesse più meschino ed immediato sarebbe stato di votare  “remain”. L’appartenenza alla Unione Europea pone un qualche limite agli istinti animali del capitalismo globalizzato, persino in Gran Bretagna. Se fossi invece stato un ex-operaio delle acciaierie di Sheffield, come i protagonisti del film “Full Monty”, insomma se fossi invece stato uno che non ha più niente da perdere, avrei forse anch’io dato una mano a sfasciare tutto.A questo proposito, vorrei fare notare che, la notte in cui si scrutinavano le schede, è stato il forte successo del voto ”leave” a Sunderland, una città del Nord-Est dell’Inghilterra praticamente sconosciuta ai più, che ha fatto crollare la Sterlina sui mercati dell’Estremo Oriente, che a quell’ora erano già aperti. E perchè? Perché Sunderland era in passato una città industriale, con importanti cantieri navali ormai chiusi, dopo che la concorrenza sudcoreana li aveva mesi fuori mercato. Ed è oggi una città particolarmente e spaventosamente depressa, abbastanza simile alla Sheffield del “Full Monty”. E da come aveva votato Sunderland gli operatori di borsa e gli speculatori sulle valute hanno capito che gli strati più umiliati e più ignorati della società britannica si stavano rivoltando, hanno intuito quale sarebbe stato il risultato del referendum, ed hanno cominciato a vendere sterline.
Salvatore Santangelo – Ma non è un po’ senza senso votare contro l’Europa, ribellarsi alla burocrazia di Bruxelles, come protesta per il fatto che la concorrenza coreana ha distretto tanti posti di lavoro?
Giuseppe Sacco – Sembra senza senso, ma in realtà, lo è meno di quanto non si possa credere.  Certo, i posti di lavoro ai  cantieri navali di Sunderland sono stati distrutti parecchi anni fa,  molto prima che – cosa che questi disgraziati probabilmente non sanno – i burocrati dell’Unione Europea  firmassero, pochi mesi fa, un nuovo trattato bilaterale di libero scambio con la Corea del sud, contro il quale neanche le obiezioni di Marchiane hanno potuto nulla. La loro protesta si rivolge in maniera generica contro l’apertura delle frontiere al commercio internazionale,  che essi vedono simboleggiata dalla partecipazione nel Regno Unito all’Unione Europea. E, In definitiva, non sbagliano neanche tanto, perché la burocrazia di Bruxelles è ormai così rigidamente impregnata dall’ideologia neoliberale propagata dai 10.000 lobbisti delle grandi compagnie globali che sono in permanenza a Bruxelles, da firmare senza pensarci due volte qualsiasi pezzo di carta venga messo sul tavolo, purché contenga le parole “libero scambio”.Ed anche votare contro l’Europa per protesta contro l’immigrazione – l’altro elemento che spiega il voto degli strati sociali come quelli di Sunderland – è meno irrazionale in quanto non posso sembrare, se si considerasse che la maggior parte degli immigrati presenti nel territorio britannico provengono non dall’Europa ma dal Terzo Mondo. Però, agli occhi di questa classe operaia ormai in gran parte disoccupata, l’immigrazione di origine europea appare più pericolosa sotto il profilo della concorrenza per i loro posti di lavoro.Dopo gli attentati del 2005, anche per adeguarsi ad un ondata anti-islamica  nell’opinione pubblica, il governo di Londra ha infatti favorito l’immigrazione proveniente dagli otto nuovi paesi membri dell’Europa centro-orientale, che erano stati ammessi in blocco nella UE l’anno precedente, a coronamento della Presidenza Prodi della Commissione Europea. I quattro milioni di potenziali migranti, che si calcolava ci fossero in questi nuovi paesi membri,e che  non avevano legalmente il diritto di emigrare verso i paesi firmatari dell’accordo di Schengen, apparvero – agli occhi di Downing Street – meno pericolosi e più facilmente integrabili perché molto differenti dagli immigrati provenienti dal Terzo Mondo. Provenivano soprattutto dalla Polonia, dalla Romania, e dai paesi baltici, il che significava che erano bianchi, che non erano musulmani, e che avevano avuto una notevole educazione tecnica, che nei paesi comunisti era sempre stata molto promossa. Ma proprio questi fattori hanno fatto sì che, agli occhi di una classe operaia britannica sempre più sul margine della disoccupazione di massa, essi apparissero subito, e appaiano ancora, come concorrenti particolarmente pericolosi.
Salvatore Santangelo – Quindi, lei in un certo senso giustifica, se non addirittura condivide, le ragioni per cui gli strati più sfavoriti della popolazione inglese ha votato “leave”?
Giuseppe Sacco – Se lei continua a chiedermi cosa avrei votato se fossi stato suddito britannico, le devo dire che, da professore universitario, avrei tenuto conto dell’interesse generale del mio paese, e avrei votato “Remain”. Ma non sarei completamente sincero se non le dicessi che, fossi invece stato uno di quei disgraziati ex arsenalotti di Sunderland, avrei probabilmente votato come loro.Ma la prego di credere che alla sua domanda mi è quasi impossibile rispondere: non riesco a immaginarmi né come culturalmente Inglese, né come suddito di una regina che pretende di essere anche il leader spirituale di una Chiesa cristiana. Essere cittadino di una Repubblica laica, e fondata sulla volontà popolare, come la Repubblica Italiana, è una parte troppo forte della mia personalità perché possa riuscire ad immaginarmi altrimenti.Comunque, come Europeo – e questa è una identità che si concilia perfettamente col mio essere Italiano – credo che il Brexit avrà nel complesso effetti positivi per l’Europa continentale e per le sue istituzioni.
Salvatore Santangelo – A Bruxelles, però, regna una grande agitazione. Si parla quasi soltanto dei problemi che l’uscita britannica provocherà. E nessuno fa  accenno ad alcun aspetto positivo.
Giuseppe Sacco – Ciò è comprensibile. Bruxelles è il regno della burocrazia europea. E di una burocrazia, che ha fatto del sogno europeo un ricco business personale da cui tende ad escludere chiunque non ruoti attorno ai palazzi brussellesi. E per la burocrazia qualche problema indubbiamente si porrà. Forse qualcuno tra di loro è allarmato perché ha capito – ma non ci conterei molto – che una buona parte della noia prima, e poi dell’irritazione e dell’ostilità che suscita l’Unione Europea deriva in gran parte dall’essere questa burocrazia tanto arrogante quanto ottusa. Comunque – ripeto – se la Gran Bretagna uscirà veramente dalla UE, qualche problema al loro squallido e ben pagato tran tran si porrà. E qualcuno perderà il posto, cosa mai vista nelle organizzazioni internazionali.Si pensi, tanto per fare un esempio, ad un problema che ora toccherà tutti i burocrati e i lobbisti che li alimentano, il problema della lingua di lavoro. In teoria, tutte le 24 lingue dei paesi UE sono ufficiali,  perché – sempre in teoria – tutti i paesi membri sono eguali. Però il carattere fittizio di questa eguaglianza già si vede nel fatto che le lingue di lavoro sono soltanto tre: l’Inglese, il Francese e il Tedesco. Ma anche questa è una fictio.  Pochi funzionari conoscono veramente il tedesco, e pochissimi lo usano come lingua di lavoro.Oggi dominano il francese, perché si era già radicato prima che il Regno Unito venisse ammesso nella CEE, e l’Inglese che si è affermato sempre più prepotentemente negli anni successivi. Basta pensare che negli ultimi tempi i nuovi funzionari venivano assunti attraverso una selezione che prevedeva almeno la conoscenza di una o più lingue comunitarie, oltre la lingua madre, ma con l’eccezione  dei candidati britannici, cui era richiesta soltanto la conoscenza dell’Inglese.Dopo il voto britannico, e i passi successivi che si dovranno fare per lo scioglimento del vincolo UK-UE, la lingua inglese dovrebbe essere eliminata come lingua ufficiale della Unione. Però già viene avanzato, per cercare di mantenerlo come lingua di lavoro, il pretesto secondo in quale il 38% della popolazione del “rEU” (rest of European Union dopo il ritiro britannico) conoscerebbe l’Inglese come seconda lingua. E’ un dato ovviamente fittizio. Ma si farà finta di crederci, e andrà probabilmente a finire che si farà un maggior uso del Tedesco nei discorsi e nei documenti ufficiali, che il Francese manterrà la sua posizione, e che l’Inglese resterà dominante nelle conversazioni di corridoio e nelle prime bozze dei documenti ufficiali.Il secondo, ma più importante problema, di Bruxelles è che ci sono moltissimi posti importanti coperti da funzionari inglesi. Bisognerà progressivamente sostituirli. Molti di questi cercheranno di ottenere una fittizia nazionalità  irlandese. Altri potranno tentare il diventare sudditi belgi in virtù della loro lunga residenza sul territorio. Ma ci sono comunque delle quote nazionali che dovranno essere rispettate. E questo sarà anche un’occasione per l’Italia, anzi un’occasione che l’Italia non deve perdere per essere meno sotto-rappresentata e mal-rappresentata di quanto non sia oggi.
Salvatore Santangelo – E dal punto di vista decisionale, come cambieranno i rapporti di forza all’interno dell’UE?
Giuseppe Sacco – I rapporti di forza, in un’istituzione come la UE, che  ha perso ogni carattere rappresentativo per diventare, col decisivo contributo del Regno Unito,  una struttura puramente intergovernativa, si misurano non già nel Parlamento europeo, bensì in sede di Consiglio, soprattutto per quel che riguarda la politica economica.Il vero meccanismo decisionale della UE, consiste perciò in un permanente braccio di ferro, in cui l’Italia – la cui rappresentanza ha una tradizione di debolezza, di discredito e di divisione al proprio interno – è sistematicamente perdente. A parte alcuni paesi, come la Spagna, che dal regime franchista ha ereditato uno struttura statuale accentrata e fortemente nazionalista, e che vende a caro prezzo il proprio voto in cambio di finanziamenti e di provvidenza speciali, ci saranno due paesi che avranno influenza prevalente nella UE post-Brexit: la Germania e la Francia.Si tratta di due paesi fondatori, che hanno provato a lungo ad effettuare una vera riconciliazione e a creare un vero e proprio “asse” decisionale. E nel loro gioco di influenze, Londra si inseriva  come alleato di circostanza del’una o dell’altra capitale, e anche come fattore di equilibrio. Senza gli Inglesi la dialettica cooperazione-concorrenza tra Francia e Germania diventa più rigida. L’Asse sarà più potente, la copertura francese agli interessi tedeschi più chiaramente indispensabile. E all’interno dell’Asse l’influenza di Parigi ne uscirà forse rafforzata.Più difficile diventerà infatti, per la Germania esercitare il potere di veto in materia di linea economica. Come ha fatto notare “Le Monde”, secondo le regole di voto introdotte nel novembre 2014, perché nel Consiglio si formi una minoranza di blocco ci vogliono almeno quattro Stati membri, che rappresentino almeno il 35% della popolazione totale dell’UE.Con l’Inghilterra fuori dall’UE, il blocco “neo-liberale” che consisteva di Regno Unito, Paesi Bassi e Repubblica Ceca, perde sostanzialmente di peso. E la Germania, che spesso si è unita a questo blocco per superare la soglia del 35% necessaria per un veto, avrà maggiori difficoltà nella sua strategia di esautorazione della UE a vantaggio dei governi dei paesi membri, e quindi di Berlino.Nell’immediato però, l’Asse franco-tedesco ha seri problemi. Hollande è debolissimo e totalmente screditato in patria, mentre la Merkel, che dovrà andare alle elezioni l’anno prossimo, non può più contare sui suoi alleati socialisti, già entrati in campagna elettorale. E naviga a vista, senza nessuna linea politica, con sterzate e dietro-front continui. In queste condizioni, pilotare il “rEU”, composto di 27 paesi tutti alla ricerca di un modo per profittare della ritirata suonata da Londra, diventa, per l’Asse Berlino-Parigi, troppo difficile. Entrambe le capitali sembrano perciò tentate dall’idea di associare l’Italia alla loro impresa comune.Lo si è visto immediatamente dopo il voto. Hollande, convinto come anche la Merkel che il Brexit non ci sarebbe stato, si era già invitato a Berlino per la settimana successiva. Ma la Merkel – convinta che ore, senza l’Inghilterra, ci sarà un periodo di assestamento, – ha inviato anche Renzi. Al che, la diplomazia francese si è subito precipitata a organizzare una cena tra Holland e il premier italiano. E’ nato così una sorta di “Direttorio” a tre. Il ruolo dell’Italia è stato insomma accresciuto già dal primo giorno del post-brexit.
Salvatore Santangelo – Due giorni dopo il Brexit, il Corriere della Sera ha messo on line un’intervista di Sergio Romano in cui la linea del quotidiano viene contraddetta apertamente. L’Ambasciatore dice esplicitamente che l’Inghilterra è entrata nell’Europa “perché l’Europa non si facesse”. E che l’uscita di Londra è un fatto positivo perché adesso sarà possibile riprendere il progetto originario, cioè quello di un’Europa molto più unita e solidale.
Giuseppe Sacco – Certo. E quello che anche io vorrei augurarmi. Però non si può pensare che il tempo sia passato invano, senza lasciare tracce. Londra è stata nella Comunità Europea, e poi nella UE, per 43 anni. Ed in questo non trascurabile lasso di tempo ha largamente realizzato il proprio progetto di rendere impossibile ogni unione approfondita, attraverso l’apertura ad un numero enorme di nuovi paesi che non avevano nulla in comune con i sei paesi fondatori, avendo vissuto esperienze storiche completamente diverse.Bisogna essere realisti. E prendere atto del fatto che c’è, sul terreno dove andrebbe costruita l’Europa unita, un’ingombrante eredità della politica dell’allargamento selvaggio: allargamento voluto principalmente dalla signora Thatcher appunto perché diventasse impossibile ogni approfondimento dell’integrazione. Nelle istituzioni dell’Unione sono così profondamente inseriti paesi come la Spagna e il Portogallo, che non hanno – per loro fortuna – conosciuto l’esperienza delle due guerre mondiali e della disfatta.  E soprattutto la cui storia, a partire dalla fine del Settecento, è una storia autonoma rispetto a quella dell’Europa occidentale, fortemente legata alla progressiva perdita degli imperi transoceanici. La loro storia, nel periodo contemporaneo, non è una storia come quella dell’Italia, le cui date fondamentali – 1797, 1815, 1820, 1830, 1848, 1870, 1914-18, 1945 – coincidono con quelle della grande storia europea.  E che coincidono perché i fenomeni politici che scuotevano l’Italia erano gli stessi che scuotevano l’intera Europa. In altri termini, nell’unione Europea sono oggi presenti paesi il cui percorso plurisecolare non coincide con quello che ha portato i Sei paesi fondatori dell’Europa continentale alle storiche decisioni unitarie degli anni 50.Per non parlare poi dei paesi scandinavi, da sempre ostili ad ogni forma di integrazione europea, e dei popoli – ammessi in blocco pochi anni fa – che avevano appartenuto all’impero sovietico, e solo di recente erano stati promossi alla forma di stati più o meno effettivamente indipendenti. Ma, che prima di allora si erano sempre trovati o sotto il dominio austro-tedesco, oppure sotto il dominio russo;   popoli più che paesi, il cui comportamento in sede comunitaria è sempre stato tanto più rissoso ed orgoglioso, quanto più fragile ed esitante è la loro identità nazionale.Il Brexit, insomma, lascia dietro di sé, un mare di rovine; in gran parte promosse o almeno favorite dalla politica europea di Londra. Lascia un’Unione Europea profondamente sfigurata rispetto a quella in cui l’Inghilterra entrò 43 anni fa. E in cui non sarà facile, anche se tutti i sei membri originari lo volessero – e non è detto che la nuova Germania unificata lo voglia ancora –, riprendere il progetto ed il sogno di allora.
Salvatore Santangelo – Ma allora il sogno europeista è morto? Ed è stata vana la generosa idea di costruire – in un mondo in cui i popoli europei costituiscono una minoranza sistematicamente decrescente della popolazione totale – una nuova entità che superasse gli egoismi, le ambizioni egemoniche di questi popoli e che addirittura li affratellasse attorno ad un patrimonio ideale comune?
Giuseppe Sacco – No. Non credo che il sogno sia morto. Ma quel che è certo e che è cambiata la realtà mondiale in cui il progetto fu inizialmente concepito e avviato. E sono piuttosto cambiati anche i popoli stessi e i loro leaders.Per rendersene conto basta pensare innanzi tutto al fatto che i Sei paesi originari della Unione Europea, i sei paesi fondatori del Mercato Comune erano i tre paesi europei usciti sconfitti della seconda guerra mondiale, più alcuni paesi minori. Anche la Francia, malgrado il capolavoro politico-diplomatico di de Gaulle di farla contare tra i paesi vincitori, rientrava in questa categoria. Unendosi e presentandosi sulla scena internazionale con un nuovo volto, pacifico e collaborativo, questi paesi potevano recuperare molto del discredito in cui essi erano caduti, e in parte attenuare il dolore e il risentimento per ferite ancora molto recenti che essi si erano reciprocamente inferte.Inoltre, il nucleo della nuova costruzione politica era ben equilibrato, perché i tre paesi principali – la Francia, l’Italia ed una Germania ampiamente  mutilata – avevano dimensioni demografiche analoghe. Inoltre, erano tre paesi che, grazie all’iniziativa americana, si erano avviati a ricostruire le proprie strutture industriali non  più in maniera autarchica e rivale, ma in maniera integrata e complementare. E mi lasci dire, en passant, che per questo l’Europa ha un debito storico gigantesco nei confronti degli Stati Uniti: un debito storico così grande che non potrà mai essere ripagato. Il dono che ci hanno fatto non sono stati infatti tanto gli aiuti del Piano Marshall, ma il fatto di darceli a condizione che, su come spenderli, i governi europei decidessero all’unanimità. Insomma, ci costrinsero a metterci d’accordo. Loro volevano che di fronte alla minaccia sovietica, gli Europei non litigassero più. Ma in quell’obbligo a metterci d’accordo è la radice che a portato al Mercato Comune, ed uno spirito di riconciliazione che è durato fina a quando dagli orogonari SEI, i paesi membri non hanno incominciato a moltiplicarsi.Ma, soprattutto, i tre principali paesi fondatori erano in una fase politica particolarmente favorevole alla nascita dell’Europa unita. Perché erano tutti e tre governati da forze minoritarie rispetto alle più aspre tradizioni nazionalistiche che avevano storicamente dominato in ciascuno di essi.Schuman, il Primo Ministro Francese era nato in Lussemburgo da un padre lorenese, e che si era trasferito al di là del confine quando, dopo il 1870, si era ritrovato ad essere suddito del Kaiser. E il figlio aveva lui stesso compiuto lo stesso breve tragitto in senso opposto nel 1919, dopo che la Lorena era ritornata francese. Schuman appresentava cioè quella parte della Francia che aveva appartenuto alla Germania fino alla prima guerra mondiale, dove oggi non si applicano – per legge – alcuni dei principi dello Stato laico, e veniva da forze politiche cattoliche storicamente oppresse dall’estremismo nazional-giacobino della tradizione francese.Al governo dell’Italia c’era De Gasperi, che  nel ventennio precedente era stato un nemico dichiarato del fascismo e del suo aggressivo imperialismo: ma  era anche estraneo agli ambienti massonici post-risorgimentali e nazionalisti dell’Italia pre-fascista,  ed era stato addirittura deputato al Parlamento di Vienna in rappresentanza del Trentino austriaco.Adenauer, infine, era espressione delle Renania cattolica, cioè di una tradizione contro la quale la Germania bismarckiana aveva aspramente combattuto una vera e propria guerra politico-culturale, il kulturkampf. E soprattutto rappresentava una Germania di cui non faceva più parte la Prussia, cioè il cuore stesso di quelle sue tradizioni militaristiche e imperialistiche che l’avevano trascinata in due tremende guerre, entrambe perdute, contro i suoi nuovi partners europei.Dei tre uomini che hanno fondato l’Europa si è detto che essi avrebbero potuto incontrarsi senza interpreti e intendersi usando la stessa lingua: il Tedesco. E’ vero. Ma essi avevano in comune molto di più: non solo la matrice  ideologica, quella cattolica, fortemente pacifista, ma soprattutto l’estraneità alle culture politiche che in ciascuno dei loro paesi avevano più fortemente nutrito il nazionalismo reciprocamente aggressivo.Oggi, le cose sono profondamente cambiate. Ci sono – certo – le istituzioni, ed è perciò da quelle che bisognerà ripartire, rendendole più politiche e meno burocratiche, più efficienti e meno potenti, meno mastodontiche e meno eterogenee: ed in questo l’uscita della Gran Bretagna sarebbe un passo importante. Ma lo si dovrà fare con grande accortezza, tenendo ben presente che la favorevole congiuntura politica di allora non esiste più. La Germania è oggi guidata da un personale politico fortemente radicato nell’est del paese, dove sta già risorgendo il nazionalismo xenofobo, per non dir peggio. La Francia è in preda a un’ondata crescente di sentimenti anti-immigrati ed anti-europei. E l’Italia stessa sembra stia smarrendo l’entusiasmo con cui aveva sin dall’inizio guardato all’unificazione dell’Europa, vedendo in essa una prosecuzione del  Risorgimento e dell’unità dell’Italia.
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Giuseppe SACCO - Note biografiche (da http://docenti.luiss.it/gsacco/)
Nato a Napoli il 1/08/’38. Laurea in Scienze Politiche presso l’Università di Napoli nel 1961.
Curriculum
Professore Ordinario di Politica Economica Internazionale, e Professore di Movimenti di Popolazione e Relazioni Internazionali presso la Facoltà di Scienze Politiche della Luiss Guido Carli.
E’ stato Professore di Relazioni e sistemi Economici Internazionali, e di Relazioni internazionali presso la stessa Università.
In precedenza, Professore presso il “Cesare Alfieri” di Firenze, presso l’Institut d’Etudes Politiques de Paris, e presso le Università di Princeton e di San Francisco, California.
E’ Editor dello The European Journal of International Affairs. Già Capo Divisione all’Oecd di Parigi, a partire dal 1971, ha lavorato come consulente in più di 50 Paesi, sia per organizzazioni internazionali (Onu, Cee, Oecd, Banca Africana di Sviluppo, Banca Asiatica di Sviluppo) che per moltissime compagnie italiane e straniere.
È stato Executive Vice-President della Saltec-Lavalin (Rome-Montreal), General Manager della Erasmus Press (Rome-Munich-Washington).
Pubblicazioni recenti
– Petrolio e Potere Mondiale, forthcoming.
– Critica del nuovo secolo, Luiss University Press, 2005.
– Que se vayan: America Latina contesa, Sankara, Roma, 2003
il Prof. Giuseppe SACCO è stato tra gli importanti Relatori al Convegno sul tema "Un progetto per rispondere al declino industriale,alla crisi occupazionale,all'attacco al mondo 
del lavoro" che abbiamo organizzato come Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI" a Milano il 23 febbraio 2006.