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martedì 18 aprile 2017

In ricordo di Horacio Guarany (recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti)

In ricordo di Horacio Guarany (recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti)

Il 13 gennaio 2017 ci ha lasciati Horacio Guarany, l’ennesimo suo esilio, dopo quelli durante gli anni della dittatura militare -1978/1984-, ma questa volta a tempo indefinito. Horacio è stato davvero un implacabile oppositore della sanguinaria dittatura militare argentina che sin dai primi giorni della presa del potere lo ha inserito insieme a Mercedes Sosa (e agli attori Luis Brandoni, Hèctor Alterio,
Marta Bianchi ed altri) nella lista dei nemici da eliminare da parte della Tripla A (Alleanza anticomunista argentina) organizzazione paramilitare a servizio dei generali golpisti. Strofe come “…aperta su Alba Poncho, la guerriglia si sta aprendo le strade…”, “…siamo prigionieri del carceriere ma io di queste goffe sbarre non ho paura…” o ancora –scritta al suo definitivo rientro dall’esilio “…sangue dei poveri, nessun debito, nessun disegno di legge…”, sono state cantate ovunque dal popolo argentino che ha usato la musica negli “anni bui” per dire no alla barbarie.
Autore emblematico della canzone di protesta, ma anche compositore di struggenti canzoni d’amore quali Zambita bruno, Song of Farewell e altre ancora. Seppe sempre pescare a pieni mani nei sentimenti popolari sin dai primi anni ’60 a partire da Angelica, scritta dall’allora suo chitarrista Roberto Cambarè, che suonerà in seguito con Caetano Veloso e i maggiori tropicalisti brasiliani. Proprio nel 1961 inaugurò il festival del folklore popolare Cosquìn a Cordoba, volano di diffusione in tutta l’America latina di tale indirizzo musicale e culturale.
Horacio nacque il 15 maggio 1925 a Santa Fe Chaco, nel villaggio di Las Garzas e presto andò a tentar fortuna a Buenos Aires, con il sogno di esibirsi come cantante, sogno presto infranto al punto che partì come marinaio su rotte commerciali, sino a che il maestro Herminio Gimenèz non lo assunse quale voce nella sua orchestra e da lì a poco divenne il Cantor. I primi dei ’60, come prima citato,  sono gli anni in cui nasce la musica popolare argentina in cui si mischiano generi diversi quali il tango, la ballata romantica, la cumbia, che producono appunto questa nuova tendenza e che vedrà Horacio svettare. Tendenza che corre in parallelo alla nascita della musica popolare brasiliana e uruguaiana anch’esse caratterizzate da basi ritmiche melodiche.
E a proposito di Uruguay come non ricordare con profondo affetto una delle ultime foto pubbliche di Horacio, quella che lo ritrae insieme al leggendario ex capo di stato Pepe Mujica. La rivoluzione in musica.

sabato 14 gennaio 2017

Sona Maya Jobarteh, virtuosissima musicista (recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti)

Sona Maya Jobarteh, virtuosissima musicista (recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti)
Sona Maya Jobarteh è certamente da considerare quale virtuosissima musicista di kora, strumento cordofono tradizionale dell’Africa occidentale, proveniente da una nota famiglia di griot  di etnia mandinka del golfo di Guinea, golfo che fece da propagatore per i cantastorie locali, che da lì si irradiarono al Mali, al Senegal, al Gambia…
Come polistrumentista, cantante, compositrice e produttrice Sona è tra le grandi donne d’Africa che si sono impegnate nel rompere la tradizione maschilista di impedire alle donne di suonare gli strumenti musicali, quali prerogativa strettamente maschile. Infatti i griot (quali detentori della conoscenza sulle tradizioni, le gesta degli antenati, gli alberi genealogici dei clan, ovvero dell’intera tradizione orale del popolo) sono tradizionalmente maschi, radicata consuetudine che Sona ha deciso di interrompere. Nipote del maestro griot Amadu Bansang Jobarteh ha collaborato come cantante, chitarrista e interprete della kora con importanti artisti internazionali quali Toumani Diabatè, Juldeh Camara e Sambou Suso, ritagliandosi però sempre un proprio spazio caratterizzato e caratterizzante una vera e propria sperimentazione artistica nell’ambito di stilemi musicali tradizionali.
L’album che ne dimostra tutte le capacità è Fasiya del 2011 che raccoglie tutto il patrimonio musicale dell’Africa occidentale (che è bene ricordare è considerata la “terra madre” del blues) un lavoro pieno di grazia e passione, amore per la propria terra, quale terra d’Africa ma contemporaneamente del mondo.
L’amore declamato in “Jarabi”, la tenacia delle donne africane in lotta per i propri diritti in “Musow”, la disperazione e l’utopia del cambiamento per i bimbi d’Africa in “Fatafina”…Voce, voci; kora, kore – da quella tradizionale a 25 corde della Casamance a quella elettrica, la cosiddetta gravikord-; percussioni e balafon strumenti diversi che danno vita ad un’omogenea mescolanza di suoni e impressioni.
Quindi tradizioni e diaspora dei popoli africani insieme, uomini e donne soprattutto, protagoniste anche grazie a donne temerarie come Sona.

venerdì 30 settembre 2016

RODRIGO Y GABRIELA , dal Messico : “Live Manchester and Dublin” (recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti)

recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti
RODRIGO Y GABRIELA
“Live Manchester and Dublin”
Coppia di messicani virtuosi i nostri due che producono, pizzicando furiosamente le corde, una musica davvero irresistibile soprattutto durante i live-act con il pubblico che entra rapidamente in visibilio. Caratterizzati da un forte background metal e hard-rock, tanto che sono soliti ri-proporre –stravolgendoli- pezzi dei Metallica e dei Led Zeppelin che fanno traballare come un terremoto le morbide e delicate linee musicali sudamericane, meglio ancora messicane. 

Perché tutti i loro brani sono fortemente intrisi delle culture indie che ancora oggi influenzano la musica e la danza moderna. Nell’ambito della musica popolare messicana il repertorio è molto ampio: dalle danze tipicamente indie come la jarana, l’huapungo e il jarbe alla  musica ranchera (il country messicano) magistralmente rappresentato dalle voci di Pedro Infante e Chavela Vargas, la cui esecuzione è sovente affidata ai mariachi, piccole orchestre itineranti tradizionali.
Tutti ambiti musicali che Rodrigo Y Gabriela rileggono, per l’appunto, alla loro maniera, quindi con accellerate, rallentamenti, variazioni innestando il nuovo sul tradizionale e proponendo/imponendo quindi all’ascoltatore di  fare salti temporali e geografici continui alternando l’hard rock (seppur rivisitato) di puro stampo britannico come la zeppeliniana Stairway to Heaven alla sandunga chiapanenca, in ritmo di valzer originaria del stato del Chiapas.
O ancora dal metal-core statunitense di Master of Puppets (sempre riarrangiato secondo gli stilemi già evidenziati) al bolero e la cueca, che sono tra gli stili tradizionali più frequentemente usati nella canciòn mexicana. Dal vivo poi sono soliti allargare la strumentazione musicale utilizzando alcuni strumenti tradizionali quali tamburi doppi, nacchere, flauti, sonagliere, rasperas, tipici delle fiestas  popolari e che sul palco accompagnano in maniera stupefacente i loro travolgenti ritmi che sono anche attraversati dai ritmi importati dai caraibi quale mambo, salsa e merengue.
La loro tecnica è davvero notevole fatta di impennate veloci e di ritmiche ottenute percuotendo la cassa di risonanza con le mani, di arpeggi deliziosi e di momenti roventi dove sembra che le corde debbano prendere fuoco da un momento all’altro. Decisamente unici.

giovedì 21 luglio 2016

CUBAN BEATS ALL STARS (recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti)

recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti
CUBAN BEATS ALL STARS

Le radici della musica cubana si possono trovare nei cabildos, ritrovi sociali auto-organizzati per schiavi africani. Ogni cabildo riuniva una etnia o più gruppi etnici sovraregionali (riferendoci all’Africa, il luogo di origine). I cabildos principali erano tre: gli Yoruba, i Congolesi, i Dahomey. Senza dubbio all’interno di un cabildo erano presenti più culture, che vennero preservate anche dopo l’abolizione della schiavitù nel 1886. Sono poi tre i fondamentali filoni musicali. Il primo è quello del sòn, genere di matrice spagnola e africana, la cui evoluzione ha portato alla nascita negli anni trenta di famosissimi gruppi detti septetos e sextetos. Un secondo filone, il danzon, attinge alla tradizione francese ed è una forma dai toni più sommessi e affidata a una strumentazione composta per lo più di strumenti a corda. Il terzo è infine attribuibile integralmente alla cultura africana. Sicuramente gli strumenti più importanti sono i tamburi, dei quali originariamente ne esistevano 50 tipi diversi; oggi abbiamo bongo, congas e batà. Parimenti importanti sono le claves ed il Cajon. E proprio su questi due ultimi strumenti si innerva il suono “tradizionalmente” moderno dei Nostri. Che germinano dalla strepitosa band (cubana anch’essa) degli Orishas che ad un certo punto si diede diverse esplorazioni musicali per i componenti la stessa. Quattro quinti d’essa confluì nei Cuban Beats All Stars dando vita ad un meltin’ pot musicale davvero caleidoscopico, tradizione cubana con suoni tipicamente urbani, loop elettronici con nenie tribali e con una gamma di temi affrontati quali la critica sociale, la strenua difesa dell’ambiente, la stigmatizzazione dei perbenismi, la difesa dei liberi costumi…con il sottofondo di un suono magico e cangiante come a leggere le pagine più belle di Garcia Marquèz ed il loro clima straniante. Hiram Riverì (voce) Nelson Palacios (voce, violino e piano) Vladimir Nùnèz (percussioni e cori) Dj Tillo (dj e cori), un combo lanciato per sentieri immaginifici in cui la canciòn (genere che trova origini nelle forme della musica popolare spagnola come tirana, polos e boleros a base di melodie intricate e scure conditi da testi enigmatici che nel tempo divennero più esplicitamente sociali quando la canciòn venne “presa” a stumento dai trovadores, un movimento di musici itineranti ispirati direttamente dal popolo minuto) si mescola allo Changuì (stile  musicale che nasce intorno al 1800 nella regione di Guantanamo e si sviluppò nelle raffinerie della canna da zucchero e nelle comunità rurali popolate dagli schiavi –un po’ come lo stevedore, il genere musical-vocale dei portuali americani che darà le basi per il primissimo blues- e che combina la chitarra delle desolate lande spagnole –del tempo- con i ritmi africani e le percussioni di origini Bantu Arara) insieme alle iperboli del polistrumentista Roy Pinatel, ormai il quinto membro fisso, diplomato al conservatorio di Santiago di Cuba ed amante del jazz che si frantuma nel Hip Hop. Per l’appunto l’Hip Hop con i tradizionali stilemi che lo contraddistinguono a dare un confine musical al tutto. E quindi ampie parti vocali di solo parlato, tessiture elettroniche downtempo, beats elettronici, percussioni tribali, litanie chitarristiche catalane...la globalizzazione, quella delle culture però. 

giovedì 14 aprile 2016

DOM LA NENA,“SOYO” da Porto Alegre (recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti)


a cura di Amerigo Sallusti
DOM LA NENA,“SOYO”

Uscito ai primi di gennaio di quest’anno il nuovo lavoro di Dominique Pinto, in arte Dom La Nena, rappresenta al meglio il senso delle parole World Music. Cantato in quattro lingue, brasilano –cioè portoghese lisboneta- spagnolo, francese e inglese, e attraversato da molteplici suoni, da caleidoscopici colori, da cangianti profumi. Tutti insieme producono un meltingpot davvero affascinante. Golondrinaè un flamenco sinuoso e ribollente di armonie tzigane; Juste une chanson ti trasporta direttamente sulla Rive Gauche con le sue coloriture alla Charles Aznavour; Vivo namarè nasce dal suo incondizionato amore (e come darle torto) per i due massimi poeti
della musica popolare brasiliana (la nostra è di Porto Alegre, terra di teologi della Liberazione) e quindi Chico Buarque de Holanda e Vinìcius de Moraes con le loro note musicali che si possono anche “udir leggendo” Jorge Amado. Con La nenasoyyoinfine si sente l’ispirazione tratta a piene mani dal più grande dei tangheri,  quell’Osvaldo Pugliese che ha rivoluzionato il tango con la sua orchestra e che per questo venne censurato dal regime militare argentino degli anni ’40 del ‘900. “Ela” il suo primo album, del 2013, non era così meravigliosamente vivo come invece quest’ultimo, carico di bossa nova, folk… 
E pensare che era destinata ad una carriera di musicista classica, virtuosa del violoncello, sino a che l’amore per la popular music la portò in tour a Parigi dove condivise una serie di esibizioni con due mostri sacri quali Jane Birkin (da qui “le arie” di Serge Gainsbourg che pervadono l’album di cui parliamo) e Jeanne Moreau (che le ha trasmesso ‘l’amore per la libertà” –in musica- della Nouvelle Vague di Francois Truffaut) che l’hanno lanciata nell’empireo della musica globale. Perché del mondo è la sua traccia, il suo riferimento nell’approcciare la scrittura dei testi che accompagnano (sì! La preminenza è data alle note) che delineano i brani di “Soyo”. Un viaggio, insomma, tra le diversità del mondo che “sotto forma canzone”, ce lo rendono –il mondo- ancor più piacevole proprio perché così disomogeneo. Senza  -musicali- confini insomma; come ci piacerebbe ri-divenisse il mondo.

giovedì 3 marzo 2016

da Atene: MONAETHPAKI “Rebeletiko” (recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti)

recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti


MONAETHPAKI “Rebeletiko” 2015, autoprodotto.


Quando nel 1928 Michalis Patrinos incise Misirlou non poteva certo immaginare che un giorno sarebbe divenuto globalmente famoso grazie al regista Quentin Tarantino che la inserì nella colonna sonora del film Pulp Fiction. Per suonare il rebetiko viene utilizzato il bouzouki lo strumento musicale greco più famoso al mondo e, in realtà, molti rebeti usano il baglama, un piccolo bouzouki lungo circa 50-60 cm, più comodo da portare in giro.
Le origini di questi strumenti si perdono nell’antichità insieme agli altri che comunemente si usano quali la lira, il clarinetto, il violino, il santouri e il kanonaki (due particolari strumenti a corda) e poi l’oud e lo tzouras (simili al bouzouki) ed infine il tumbeleki (una specie di tamburo).
Un uso corale
  di strumenti per una musica appellata rebetiko che in turco significa fuorilegge. Perché è giusto ricordare che tutto ciò nasce “a causa” della grande sconfitta greca nel 1923 ad opera della confinante Turchia che a seguito di tale conflitto acquisì una serie di territori da tempo immemore facenti parte della Grecia continentale; in tale frangente oltre un milione di greci dovette fuggire così come dovettero fare altrettanti turchi in senso inverso per scampare alle persecuzioni che stavano esplodendo nei loro confronti.
I
Monaethpaki gruppo di giovani ateniesi che si è autoprodotto il proprio cd ci parlano di queste tematiche nelle loro canzoni: guerre, povertà, migrazioni, sofferenze dei popoli. Il rebetiko si sviluppa su più fasi temporali peculiari ma tutte scaturiscono egualmente nelle grandi periferie delle città portuali, tra i marinai, i baraccati, gli emarginati, i disoccupati, simile in ciò al fado, al tango…
Questo genere, questa attitudine musicale infatti ritorna sempre (musicalmente) alle origini quando gli “avvenimenti umani” mutano in sommovimenti, peregrinazioni di massa e non a caso anche per i
Monaethpaki il percorso è lo stesso; nascono nella temperie sociale di questi ultimi anni, di una Grecia scossa e ribollente per le tempeste economico-finanziarie mondiali e nei loro testi, nelle loro musiche si odono, si percepiscono sentimenti divergenti quali le cupe ombre del presente e lucide utopie di un cambiamento possibile. 
Con un sottofondo costante di litanie arabe e gitane a rappresentare musicalmente il crogiuolo rappresentato da una terra di confine come quella “attualmente” divisa da confini “nominati” greco-turchi. Strumenti tradizionali, vocalizzi attuali, ispirazioni antiche e speranze futuribili attraversano i momenti più lenti dei brani che di colpo e frequentemente vengono scossi da turbinii, quasi a rappresentare in note la realtà materiale della loro terra, quella Grecia che ha dato vita alla filosofia, summa delle conoscenze, ora messa all’angolo da un manipolo di tecnocrati e speculatori di ogni risma. La miglior risposta è questa dei Monaethapaki: “Sarà una musica che vi seppellirà” per parafrasare un vecchio slogan di qualche decennio fa.

sabato 9 gennaio 2016

Aziza Brahim : la grande voce della resistenza del popolo saharawi (recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti)

recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti
Aziza Brahim. L’haul è una musica che stratifica in se diverse influenze e nasce proprio dall’incrocio tra le numerose popolazioni (Berberi, arabi, sudanesi) che attraversando il deserto con le loro carovane trasmettevano suoni, storie e tradizioni.
Nella musica attuale, gli strumenti principali del haul sono la chitarra elettrica e il tbal, suonato dalle donne, che ricorda i tamburi romani, con corpo concavo realizzato da un unico pezzo di legno.
Sono altri gli strumenti che si suonavano tradizionalmente come il tidinit, una specie di piccolo laùd con un corpo allargato; l’ardin, simile a una kora, la chitarra tipica della prima fascia dell’Africa sub-sahariana ma molto più semplice e i flauti usati dai pastori. La chitarra che ha sostituito il tidinit infine, è stata introdotta dal cantante mauritano Sidati Uld Abba verso la fine degli anni sessanta.
Ecco la musica saharawi, un incrocio di culture, una miscellanea di idiomi, una stratificazione di influenze.
Sinchè il 6 novembre 1975 re Hassan II fece organizzare la “marcia verde” con cui 350.000 marocchini entrarono nel Sahara Occidentale per vanificare il referendum che avrebbe posto le basi di una definitiva appropriazione dei territori sahariani occidentali da parte di chi ne aveva piena legittimità, il popolo saharawi.
 
Una brutale invasione militare con bombe al napalm e la costruzione di campi di internamento per i resistenti che dettero vita, proprio in quei giorni, alla Repubblica Democratica Araba dei Saharawi in netta contrapposizione a quel sopruso.

Resistenza che Aziza Brahim declina da anni sotto forma-canzone. “Soutak” il suo ultimo lavoro significa La voce in lingua saharawi. Le sue note infatti, i suoi testi danno fiato alla sofferenza dei profughi nei campi in esilio, agli internati nelle prigioni marocchine ed al ricordo delle migliaia di desaparecidos, scomparsi non nel mare come per le dittature sud-americane ma nel deserto del Sahara. Nove brani compongono Soutak attraversato dal flamenco spagnolo e dal blues del Mali, con una sorta di lingua universale che miscela tutte insieme tradizioni e modernità.
Si parte con “Gdeim Izik” e si parte in quarta poiché è dedicata “al campo della dignità”, accampamento smantellato dalle forze di sicurezza marocchine nel 2010 con inaudita violenza. Segue “Manos enemigas” con splendide chitarre ed ipnotiche melodie accompagnate dalla profonda voce di Aziza che d’un balzo ci trasporta al duetto per voce e sole percussioni di “Aradana” che ricorda lontanamente alcuni stilemi musicali kmher. In sottofondo tuti i pezzi sono penetrati da nuance desertiche che esplodono invece nella finale “Ya Watani” in cui strumenti tradizionali e nulla più accompagnano Aziza in note di vita, libertà e dignità. Composizione musicale che ci porta direttamente (e a cui dedichiamo poiché recentemente scomparsa) alla grandissima Mariem Hassan che del popolo saharawi fu la prima porta bandiera a partire dai primi concerti che teneva nei campi profughi nel deserto subito dopo l’invasione della propria terra.

giovedì 5 novembre 2015

Bukola Elemide in arte Asa (recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti)

recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti
ASA

Asa voce e chitarra, Janet Nwose voce, Nicolas Mollard chitarra, Jean-Francois Ludovicus batteria, Stefane Castry basso, Didier Davidas tastiere. Un combo davvero entusiasmante accompagna Bukola Elemide in arte Asa, 32 anni nigeriana nata a Parigi. Il suo nuovo album “Bed of Stone” uscito a fine agosto è un canto libero come il significato del nome d’arte che ha scelto, falco. Cresciuta in Nigeria, a Lagos, dal debutto, nel 2007 con l’album “Asa”, è spesso paragonata per la sua voce calda e graffiante a Tracy Chapman. 
Ma la musica della trentaduenne è quella che ha assimilato da Fela Kuti e Angelique Kidyo, con la quale collabora. E poi Bob Marley ed Eryka Badu, artisti anch’essi che in qualche modo l’accompagnano dalla nascita. Ed il collante di tutte queste sfaccettature infine, quella koinè artistica che è la caratteristica delle musicalità presenti nell’Africa occidentale grazie all’espressività yoruba. 
L’impegno per la sua Nigeria poi, nazione in turbolento sviluppo, era il motivo al centro del primo album, portato al successo dalla hit “Fire on the Mountain”, mentre la bellezza della vulnerabilità era il concept del successivo “Beautiful Imperfection”, del 2010. Nel nuovo disco che Asa ha scritto tra Berlino, Lagos, New Orleans, Londra, è l’amore, alla fine, che fa da traino alle nuove canzoni, in equilibrio tra influenze black americane e identità africana. Lagos, una città pullulante di gente e vibrante di energia, ma anche un luogo caratterizzato da una profonda spiritualità. L’Islam e il Cristianesimo convivono in un’atmosfera di tolleranza, i giovani imitano l’America, la città turbolenta si muove senza sosta in un balletto armonioso e infernale di amore e di odio, risate e violenza, povertà e benessere. Città dove negli anni suo padre ha accumulato una notevole collezione di dischi, soprattutto classici soul e musica nigeriana. 
La piccola Asa è cresciuta con il suono di artisti quali Marvin Gaye e Aretha Franklin dai quali trarre continuamente ispirazione. Nel 2006 Asa ritorna a Parigi e si ritrova a suonare con artisti quale Nubians, Manu Dibango e Tony Allen. Nel luglio 2007 firma per la label Naive producendo un magnifico album pieno di emozioni e melodie; la voce della giovane cantante e la sua energia confermano il suo eccezionale talento. Ad accompagnarla e a dare luce particolare al disco è il flauto del “maestoso” Magic Malik. L’R&b si unisce al pop e al reggae in “Fire on Mountain”, primo singolo dell’album e suo vero hit “di sempre”, un’impertinente e velata metafora per un mondo ignorante e indifferente. Chi si rifiuta di prestare attenzione alle scintille non avrà altra scelta se non correre quando scoppierà l’incendio. 
Il fuoco rappresenta simbolicamente i conflitti e i problemi dell’umanità di cui non ci prendiamo più cura: la violenza domestica, la povertà fuori dalla porta di casa, e così via. Asa esprime in tanti modi diversi il suo punto di vista agrodolce nei confronti della realtà che la circonda. E così denuncia la moderna schiavitù in tutte le sue forme; gli scempi ambientali e tutte le guerre. Come  una moderna griot o cantastorie gira per il mondo accompagnata da antichi strumenti cordofoni e vibrafoni che insieme a quelli elettrici producono melodie e musicalità davvero speciali. A esplicitare come non vi possa essere modernità senza radici poiché –anche- la musica nasce dal grande cuore dell’Africa. Asa, menestrello del/nel mondo.

lunedì 12 ottobre 2015

MASTER MUSICIANS OF JAJOUKA (recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti)

recensione musicale a cura di Amerigo Sallusti
MASTER MUSICIANS OF JAJOUKA

Bill Laswell è uno sperimentatore fra musiche tradizionali e avanguardia contemporanea. Il bassista ha appena terminato un nuovo progetto con la formazione indicato nel titolo, dopo che con la stessa aveva già elaborato nel 1992 “Apocalypse Across the Sky”, capitanata da Bachir Attar.
Quest’ultima produzione è caratterizzata dall’estrema fluidità delle ritmiche magrebine, impegnate in un dialogo con particolari strumenti elettrici. L’Occidente e il mondo tribale si sovrappongono, e la ritualità offre stimoli inediti e virtuosi. Scoperti per la prima volta dai Rolling Stones e dallo scrittore William Burroughs, i Master Musicians  sono un’esperienza sonora imperdibile. Lewis Brian Hopkins Jones il fondatore e “vero” leader delle Pietre rotolanti era un vero innovatore nell’utilizzo degli strumenti tradizionali delle culture popolari e così fece anche quando “agganciò” i Master Musicians.
Combo di berberi dediti al Sufi che innestano costantemente di musica trance. Provenienti dal villaggio di Jajouka nelle montagne del Ahl Srif nella parte sud della catena del Rif, nel nord del Marocco. Considerando in primis che la musica marocchina è di molti tipi e soprattutto la modalità araba, berbera e andalusa.
Quest’ultima deriva direttamente dalle musiche della metà del 1500 ed è caratterizzata dall’uso dei diversi dialetti locali che ne stilizzano il cantato (spesso derivante da poesie popolari) su linee musicali invece simili tra loro, legate soprattutto dal tradizionale violino kemanjah e dallo strumento cordofono, simile ad un banjo, conosciuto come rebab. La modalità araba ha mantenuto linee classiche senza mai evolversi, con espressioni vocali dedicate a tematiche amorose o qualora satireggianti, con utilizzo di cori che si rifanno alle litanie religiose e le parti di accompagnamento musicale ridotte all’osso.
I Master Musician si rifanno alla “pratica” berbera, strettamente collegata al ballo ed alle danze rituali anche nella variante sufi (filosofia mistica pre-islamica). Fortemente caratterizzati, i Master Musicians ma anche la modalità berbera, da un uso strenuo delle percussioni e tamburi tradizionali, come i tambourines, definiscono il proprio ritmo con melodie sincopate decisamente trascinanti che “lanciano” i danzatori in vorticose estasi mistiche. Sono, i nostri, tra i principali animatori del festival di Gnaoua di Essaouira, un’esperienza sensoriale completa, dove ogni anno musiche provenienti da tutta l’Africa si intrecciano a rappresentazioni teatrali catartiche.
Non foss’altro perché gli Gnawa (da cui Gnaoua) antichi discendenti degli schiavi delle vie carovaniere che provenivano dall’oriente ( da qui il frammischiarsi di generi e culture) fondarono confraternite e attraverso di esse si arrivò al relativo culto di miscelare elementi africani e arabo-berberi, cui in maniera preponderante si ispirano i Master Musicians e lo si sente durante le loro esibizioni aperte dai maalem, i maestri cerimonieri, accompagnati dal suono del sintir o guembrì (un caratteristico basso a tre corde utilizzato dai popoli nomadi del Sahel) e dai tamburi di pelle di capra unitamente al battito dei crotales (nacchere metalliche) mentre “partono” canti in arabo dialettale dal ritmo ossessivo “assediati” da melodie pentatoniche e ritmi sincopati (quasi un blues primigenio) il tutto accompagnato da frenetiche danze e battiti di mani.
Per tal emotivo sul finire dei ’60 comunità hippy, artisti e musicisti di tutto il mondo (da Zappa a Hendrix) cominciarono a visitare e stabilirsi in queste lande, per capire in sostanza, come riscaldare gli algidi cuore dell’Occidente. Si danza!