Da tre settimane, oramai, è esploso nuovamente un aspro conflitto sindacale nello storico stabilimento di Lambrate. Dopo mesi di vertenza sul futuro della fabbrica, un accordo bocciato dai lavoratori e settimane di mobilitazione per difendere produzione e macchinari, i 4 licenziamenti di rappresaglia hanno innescato un lungo sciopero (11 giorni) e un presidio permanente ai cancelli.
Da tutto questo, la FIOM milanese e quella nazionale è stata completamente assente. Mai una presenza ai cancelli, mai un intervento di sostegno. Di più, come è uscito anche sulla stampa, ha ripetutamente e maldestramente scaricato la vertenza e gli stessi lavoratori dell’INNSE, visto il loro rifiuto ad accettare l’accordo delineato da Camozzi. Una presa di distanza pubblica ed esplicita, ogni oltre limite politico (nei confronti di una realtà esemplificativa, che ha segnato la storia del conflitto sindacale negli ultimi anni) ed anche ogni oltre limite sindacale (ostacolando persino l’azione di minima tutela dovuta ad ogni iscritto ed iscritta alla CGIL). Un distacco che non è passato inosservato al padrone, che ha più volte sottolineato l’assenza della FIOM, anche in incontri formali in Prefettura.
Questa mattina però davanti ai cancelli di via Rubattino c’era una FIOM. Milanese, Lombarda e anche Nazionale. Era la FIOM dell’area congressuale il Sindacatoaltracosa-OpposizioneCGIL, con componenti del direttivo lombardo, delegati e delegate RSU di molti stabilimenti, Eliana Como del Comitato Centrale. Più di una cinquantina di compagni e compagne, che hanno portato solidarietà e vicinanza ai licenziati ed ai lavoratori in lotta, perché questa lotta come tutte le lotte di fabbrica non sarà mai lasciata sola. Noi ci siamo. Speriamo ancora, e lotteremo sempre, affinché ci sia anche tutta la FIOM.
Comunicato del: Il sindacato è un'altra cosa-opposizione Cgil
LA LOTTA DEGLI OPERAI E DEGLI IMPIEGATI DELL'INNSE DI MILANO VIENE PORTATA AVANTI CON DETERMINAZIONE, SENZA TENTENNAMENTI E INCERTEZZE. CONVOCAZIONE DI UN'ASSEMBLEA LUNEDI' 27 MARZO DAVANTI AI CANCELLI.
I fatti sono ormai noti a molti.
Il gruppo Camozzi di Brescia, proprietario dello stabilimento INNSE di Via Rubattino 81 a Milano prosegue di fatto nella sua insensata strategia di ridimensionamento dello stabilimento e di criminosa azione persecutoria nei confronti dei 27 dipendenti della storica e famosa fabbrica, della quale gli operai hanno evitato la chiusura ed ottenuto la prosecuzione dell'attività produttiva negli anni 2008 e 2009, dopo 14 mesi di lotte, scioperi e presidi ai cancelli. Dal 6 al 20 marzo di quest'anno gli operai e gli impiegati dell'INNSE hanno messo in atto undici giorni consecutivi di sciopero, cui hanno aderito tutti i dipendenti, che ha bloccato qualsiasi attività, per ottenere che la proprietà effettuasse il ritiro dei 4 licenziamenti applicati in tronco ed il reintegro nei loro posti di lavoro dei 3 operai dirigenti delle lotte del 2008 e 2009, nonché di quelle più recenti del 2016 e 2017, oltreché di un'impiegata che da anni lavora in quella azienda. Di fronte ai citati gravissimi licenziamenti eseguiti la FIOM, alla quale tutti i 27 dipendenti dell'INNSE sono iscritti, si è contraddistinta per la più assoluta, mancata presenza. Gli iscritti si aspettavano che ci fosse l'intervento del segretario FIOM di Milano (o quantomeno di un funzionario della FIOM milanese) e comunque auspicavano la loro presenza davanti ai cancelli dell'INNSE di Via Rubattino 81. Ma finora non c'è stata alcuna risposta a queste pressanti domande. Bisogna notare che - dopo la fine dello sciopero di undici giorni ed il rientro al lavoro (per ovvie ragioni di sopravvivenza materiale) dei dipendenti INNSE non licenziati - continua a proseguire per l'intera giornata lavorativa il presidio permanente davanti ai cancelli dello stabilimento di via Rubattino, assicurato dai dipendenti che hanno subìto il licenziamento e da numerosi lavoratori, studenti, pensionati e cittadini milanesi che sono solidali con la lotta degli operai dell'INNSE.
LUNEDI' 27 MARZO ALLE ORE 12.OO DAVANTI AI CANCELLI DELLA FABBRICA SARA' ORGANIZZATA UN'ASSEMBLEA DEGLI OPERAI DELL'INNSE, CONGIUNTAMENTE AD ALTRI LAVORATORI, STUDENTI, PENSIONATI, CITTADINI MILANESI E TUTTI I SOLIDALI CHE SOSTENGONO LA LOTTA DI QUESTA FABBRICA.
NELL'OCCASIONE SARA' PRESENTE LA COMPAGNA ELIANA COMO DEL COMITATO CENTRALE DELLA FIOM E DEL GRUPPO OPERATIVO COMITATO DIRETTIVO CGIL NAZIONALE PER L'AREA CONGRESSUALE "IL SINDACATO E' UN'ALTRA COSA-OPPOSIZIONE CGIL"
Considerata la brutalità del licenziamenti praticati e la gravità della situazione determinatasi all'INNSE si invitano gli operai, i lavoratori, gli studenti, i pensionati, i cittadini solidali con gli operai dell'INNSE ad essere presenti all'assemblea.
da http://fabbisogni.isfol.it/dati/medio_termine/mediotermine_intera%20economia_2016_regioni/LOMBARDIA_settori_2011-2016.pdf
LOMBARDIA
Le previsioni al 2016: impiego di lavoro
La previsione relativa alla dinamica occupazionale che la Lombardia sperimenterà
nel corso del periodo 2010-2016
1 mostra una variazione media annua negativa,
pari allo 0.1 per cento, che comporterà una riduzione dei livelli occupazionali
rispetto a quanto si osservava nel 2009, ma anche rispetto al 2007 (ovvero nella
situazione pre-crisi). La differenza tra l’occupazione prevista al 2016 e il dato al
2009 è di circa 23 mila occupati, pari ad una diminuzione del 48.7 per cento. Come
si può vedere dal grafico allegato, le contrazioni di occupazione si concentreranno
nella prima parte del periodo di previsione (almeno fino al 2013), dopodiché si
osserverà una ripresa dell’occupazione regionale che però sarà modesta e non
permetterà di recuperare tutte le perdite cumulate. Nel 2016 il numero di occupati
sarà pari a 4 milioni 625 mila.
È l’industria in senso stretto, in cui sono impiegati il 26 per cento degli occupati
lombardi, il settore dove si registreranno le perdite occupazionali più consistenti nel
periodo di previsione. D’altra parte, il crollo dei livelli produttivi in questo settore ha
determinato un generale ridimensionamento del numero di occupati,
particolarmente intenso in quelle regioni (come la Lombardia) dove più elevata è
l’incidenza dell’industria sull’occupazione complessiva. La flessione prevista
dell’occupazione è pari allo 0.9 per cento in media all’anno; di conseguenza, il
numero di occupati è atteso ridursi di quasi 72 mila persone. Tale variazione
rappresenta un ulteriore peggioramento della dinamica della forza lavoro occupata
nell’industria lombarda, dal momento che già nel periodo precedente si era avuta
una riduzione media annua dello 0.2 per cento. Nel complesso nel 2016 il numero
di occupati scenderà a un milione 124 mila addetti
Prospettive sociali e occupazionali nel mondo 2106
La disoccupazione mondiale tenderà ad aumentare sia nel 2016 che nel 2017
Nonostante i livelli di disoccupazione siano diminuiti in alcuni paesi industrializzati, nuovi studi dimostrano che la crisi mondiale dell'occupazione non è terminata, soprattutto nei paesi emergenti.
Comunicato stampa | 19 gennaio 2016
GINEVRA (ILO News) — Il nuovo rapporto dell’ILO avverte che il permanere di alti tassi di disoccupazione in tutto il mondo e di forme di occupazione vulnerabile in molti paesi emergenti e in via di sviluppo continua ad avere pesanti conseguenze sul mondo del lavoro.
Il numero totale di disoccupati nel mondo nel 2015 è stato stimato pari a 197,1 milioni, 27 milioni in più rispetto al livello pre-crisi del 2007. Il dato del 2015 dovrebbe subire un incremento di circa 2,3 milioni nel 2016 e raggiungere i 199,4 milioni. Un ulteriore 1,1 milioni di disoccupati si aggiungeranno nel 2017. Lo afferma il rapporto dell'ILO World Employment and Social Outlook — Trends 2016 (WESO — «Prospettive mondiali dell’occupazione e sociali 2016»).
«Il rallentamento significativo delle economie emergenti, insieme alla forte diminuzione del prezzo delle materie prime, sta avendo effetti drammatici sul mondo del lavoro», afferma Guy Ryder, Direttore Generale dell'ILO.
«Un grande numero di lavoratrici e di lavoratori si trovano a dover accettare lavori a bassa retribuzione, non solo nelle economie emergenti e in via di sviluppo, ma sempre più frequentemente anche nei paesi industrializzati. Nonostante sia diminuito il numero dei disoccupati in alcuni paesi dell’Unione Europea (UE) e negli Stati Uniti, sono sempre troppo numerose le persone ancora senza lavoro. Dobbiamo prendere provvedimenti urgenti per rilanciare le opportunità di lavoro dignitoso. Altrimenti rischiamo che s’intensifichino le tensioni sociali», aggiunge Ryder.
Le economie emergenti sono le più colpite Nei paesi industrializzati, il tasso di disoccupazione è sceso dal 7,1 per cento nel 2014 al 6,7 per cento nel 2015. In molti casi, tuttavia, tali miglioramenti non sono stati sufficienti a eliminare il divario occupazionale indotto dalla crisi finanziaria mondiale. Inoltre, le prospettive occupazionali si sono ormai deteriorate anche nei paesi emergenti e in via di sviluppo, in particolare in Brasile, in Cina e nei paesi produttori di petrolio. «Il contesto economico instabile, la volatilità dei flussi di capitali, i mercati finanziari ancora mal-funzionanti e la debole domanda globale, continuano a pesare sulle imprese e a scoraggiare gli investimenti e la creazione di posti di lavoro», spiega Raymond Torres, Direttore del Dipartimento della Ricerca dell'ILO. «Inoltre, i responsabili delle decisioni politiche devono concentrarsi maggiormente sul rafforzamento delle politiche dell'impiego e la riduzione delle eccessive disuguaglianze. E’ ormai evidente che una buona articolazione delle politiche sociali e del mercato del lavoro sia determinante per rilanciare la crescita economica e per affrontare la crisi dell'occupazione. A quasi otto anni dall'inizio della crisi mondiale, il rafforzamento di queste politiche è necessario e urgente», aggiunge Torres. Gli autori del WESO dimostrano che anche la qualità del lavoro rimane una sfida importante. Sebbene si sia registrata una diminuzione dei tassi di povertà nei paesi in via di sviluppo, la diminuzione del numero dei lavoratori poveri è rallentata e il 46% dell'occupazione totale, equivalente a circa 1,5 miliardi di lavoratori, è costituita da occupazione vulnerabile. L'occupazione vulnerabile è particolarmente elevata nei paesi emergenti e in via di sviluppo, colpendo rispettivamente tra la metà e i tre quarti degli occupati, con picchi del 74 per cento in Asia del Sud, e del 70 per cento in Africa Sub-sahariana. La sfida del lavoro informale Il rapporto dimostra che l'occupazione informale — come percentuale dell'occupazione non-agricola — supera il 50 per cento del totale degli occupati nella metà dei paesi emergenti e in via di sviluppo che presentano dati comparabili. In un terzo di questi paesi, l'occupazione informale colpisce oltre il 65 per cento dei lavoratori. «La mancanza di lavoro dignitoso porta le persone a volgersi verso l'occupazione informale, tipicamente caratterizzata da scarsa produttività, salari bassi e dall'assenza di protezione sociale. Occorre cambiare questa situazione: dare una risposta tempestiva e vigorosa a questa sfida di dimensioni mondiali è fondamentale per poter realizzare gli Obiettivi dell'Agenda di sviluppo sostenibile 2030 recentemente adottata dalle Nazioni Unite», conclude Ryder.
Il miglioramento del mercato del lavoro italiano
Il rapporto segnala un miglioramento delle condizioni del mercato del lavoro nei paesi industrializzati – in particolare negli Stati Uniti, la Germania e l’Italia – dove il tasso di disoccupazione è diminuito dal 12,7 per cento nel 2014 al 12,1 per cento nel 2015.
Con una crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) dello 0,9 per cento nel 2015, l’Italia figura anche fra le economie europee che sono passate da una crescita negativa o nulla a una ripresa più netta, insieme a Cipro, Portogallo, Slovenia e Spania. Tuttavia e nonostante in Europa il 65 per cento degli scambi economici avvenga tra paesi della regione, l’economia europea è legata anche alle economie emergenti, in particolare alla Cina. Il rallentamento di queste economie rischia quindi di ripercuotersi anche sull’Europa.
La diminuzione del prezzo dell’energia e il deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro hanno favorito una ripresa dell’occupazione più rapida del previsto nei paesi del sud dell’Europa come Spagna, Portogallo e Italia, nonostante i tassi di disoccupazione nella regione rimangano tuttora superiori ai livelli pre-crisi all’eccezione del Regno Unito e della Germania.
In Europa quasi la metà dei disoccupati sono a rischio povertà. In molti paesi europei, la ripresa dell’occupazione è andata a scapito della qualità, con la creazione di nuovi posti di lavoro concentrata in buona parte in forme di occupazione non standard (come il lavoro occasionale e a tempo parziale). La quota dei contratti di lavoro a tempo pieno, che rappresentava oltre l'80 per cento dell’occupazione totale nel 2007, è scesa di oltre 3 punti percentuali nel 2015. Al contrario, la quota di rapporti di lavoro a tempo parziale sul totale dell’occupazione è salita a più del 22 per cento nel 2015. Inoltre, il lavoro a tempo parziale è spesso involontario. Nel 2014 il 71,2 per cento dei lavoratori a tempo parziale in Grecia erano di natura involontaria, mentre la quota era al di sopra del 64 per cento in Italia e in Spagna e oltre il 50 per cento in Portogallo.
Cos'è l'ILO : L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) è l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere il lavoro dignitoso e produttivo in condizioni di libertà, uguaglianza, sicurezza e dignità umana per uomini e donne. I suoi principali obiettivi sono: promuovere i diritti dei lavoratori, incoraggiare l’occupazione in condizioni dignitose, migliorare la protezione sociale e rafforzare il dialogo sulle problematiche del lavoro. (tratto dal sito ufficiale dell'Ufficio dell'ILO per l'Italia e San Marino : ILO-Rome)
Il Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI" esprime ai familiari e a tutti coloro che lo hanno conosciuto, il più profondo cordoglio per la morte del Prof. Luciano Gallino, Professore Emerito di Sociologia dell'Università di Torino. Il Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI" ha avuto più volte occasione di incontrarlo, presso il suo ufficio nella Facoltà di Sociologia all'ombra della Mole Antonelliana, ed averlo ospite nei propri convegni come ad esempio in quello del 23 febbraio 2006 su "Un progetto per rispondere al declino industriale, alla crisi
occupazionale, all’attacco al mondo del lavoro” o quello del 28 maggio 2009 su "Crisi economica, crisi industriale, crisi sociale e i lavoratori". Il Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI" ha avuto modo di apprezzare, non solo attraverso i suoi numerosi libri e scritti, direttamente la sua onestà intellettuale, la sua indipendenza e serietà di studioso, la sua capacità di analisi e il suo acume nel cogliere tutti i risvolti dei cambiamenti nell'economia e nella società, la sua coerenza e il suo contributo ad indicare strade alternative contrastando la subordinazione e l'appiattimento al pensiero unico. Abbiamo sempre apprezzato la sua battaglia contro "la scomparsa dell'Italia industriale", le sue proposte ed idee per il lavoro e dalla parte dei lavoratori, la sua umanità. Nel salutarlo per l'ultima volta e nel riaffermare la nostra profonda stima, per ricordarlo pubblichiamo qui di seguito alcune foto tratte dal nostro "album" e in un altro post la sua relazione al nostro Convegno del 2006 ed a quello del 2009, Ciao Professore !!!
Luciano Gallino, Milano 28 maggio 2009 Convegno su "Crisi economica, crisi industriale, crisi sociale e i lavoratori"
Milano 28 maggio 2009 Convegno su "Crisi economica, crisi industriale, crisi sociale e i lavoratori" da sx Luciano Gallino, Joseph Fremder,Osvaldo Pesce
Luciano Gallino , Milano 28 maggio 2009 Convegno su "Crisi economica, crisi industriale, crisi sociale e i lavoratori"
Milano 28 maggio 2009 Convegno su "Crisi economica, crisi industriale, crisi sociale e i lavoratori" da sx Luciano Gallino, Joseph Fremder,Osvaldo Pesce, Piergiorgio Tiboni
il nostro ultimo incontro con il prof. Luciano Gallino, nel suo ufficio a Torino, 23.01.2014 da sx : Osvaldo Pesce, Carlo Parascandolo, Luciano Gallino
in memoria del Prof. Luciano Gallino, pubblichiamo qui di seguito la Relazione da lui tenuta sul tema: "SUL DECLINO INDUSTRIALE E SUI MODI PER USCIRNE" al Convegno organizzato dal Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI" a Milano il 23 febbraio 2006 e il video della Relazione da lui tenuta sul tema: "CRISI ECONOMICA, CRISI INDUSTRIALE, CRISI SOCIALE E I LAVORATORI organizzato dal Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI" a Milano il 28 maggio 2009
"Un progetto per
rispondere al declino industriale,
alla crisi occupazionale,all'attacco al mondo del lavoro"
Convegno tenutosi a Milano il 23 febbraio 2006
Sala Auditorium 1S – Consiglio Regionale della
Lombardia
Prof.
Luciano GALLINO
Professore Emerito di Sociologia
Università di Torino
SUL DECLINO INDUSTRIALE E SUI MODI PER
USCIRNE
In
tema di declino industriale dell’Italia circolano da tempo, nei media ma
anche nella letteratura specialistica,
varie affermazioni che si possono compendiare come segue: 1) Il declino,
in realtà, non esiste; 2) quel che sembra un declino è, semmai, una
trasformazione del sistema produttivo nazionale; 3) il fatto che l’industria italiana sia per metà in mani
straniere non è un segno di declino: l’importante è che la produzione continui
a svolgersi nel nostro paese; 4) anche se l’industria manifatturiera dovesse
scomparire non importa: il futuro appartiene ai servizi.
Per ciascuna di tali affermazioni esporrò
sinteticamente le ragioni per cui mi pare che esse non poggino su basi solide,
ovvero siano idee ricevute. Da ultimo
dirò perché, a mio giudizio, le proposte delineate finora in sede governativa
per contrastare il declino e rilanciare la competitività sfiorano appena, in
pratica, la superficie del problema.
1) Tra i segni di declino che non si possono
ignorare vanno collocati la crescita esigua del Pil, che dopo essere stata
minima per anni è passata al negativo nel quarto trimestre 2004 (- 0,4%) e nel
primo trimestre 2005 ( - 0,5 secondo l’Istat, - 0,6 secondo l’Ocse), per
riportarsi a fine anno vero lo zero; la
stagnazione o la diminuzione della produzione industriale in quasi tutti i
principali comparti, in media – 0,5 al trimestre; la diminuzione in un decennio di oltre un
punto e mezzo della quota italiana delle
esportazioni nel mondo, dal 4,6 al 3% in termini reali.
Parecchi altri indicatori sono disponibili.
Ad esempio, tra le 2000 società più importanti del mondo classificate secondo
un indice che combina vendite, utili e valore in borsa, pubblicata da “Forbes”
nel maggio 2005, l’Italia vi compariva con sole 45 società, contro le 63 della
Germania, le 62 della Francia e le 140 del Regno Unito. Per tacere di paesi che
hanno tra un quarto e un ottavo della nostra popolazione - Olanda, Svezia,
Svizzera – e però erano presenti nello stesso gruppo con un numero di gruppi
economici di poco inferiore al nostro. La
Svizzera, per dire, con i suoi sette milioni di abitanti, portava in
detta classifica ben 37 società. Parecchie delle quali, si noti, sono grandi
gruppi industriali.
Nello stesso senso depongono le serie
storiche. “Business Week” pubblica ogni anno un’altra classifica, quella delle
Global 1000, ordinate in questo caso per valore di mercato. In essa si scopre
che nel 2000 le società italiane erano presenti in 31; nella edizione
aggiornata al maggio 2004 erano scese a 23. Tra
queste i gruppi industriali erano in minoranza, e molti si situavano
intorno al 750° posto o al disotto. In tale posizione si trovavano Edison,
Luxottica, Fiat e Finmeccanica.
Sempre da un punto di vista storico o
diacronico va ricordato che negli ultimi lustri sono scomparsi, o sono vistosamente deperiti, interi settori
industriali, senza che nessun altro sia emerso di dimensioni sufficienti a
compensare il loro peso nell’insieme dell’economia. A causa delle “guerre
chimiche” degli anni ’70 e ’80, che hanno visto via via come protagonisti
Montecatini, Montedison, Enichem ecc., è scomparsa in Italia la grande
industria chimica. La produzione in grande serie di personal computer, nella quale la Olivetti
aveva occupato posizioni di leader europeo dopo essere stata la prima al mondo
a lanciarli sul mercato – nel lontano 1965 -
è cessata formalmente nel 1997. Per fortuna l’industria automobilistica,
che in Italia vuol dire soltanto Fiat, appare oggi emergere dalla crisi, ma va
ricordato che al presente si batte per riconquistare il 7% del mercato europeo,
laddove un decennio fa si batteva per mantenere
quota 18%.
Per documentarsi sul declino industriale
sono inoltre disponibili gran numero di rapporti sullo stato della economia
italiana che escono da centri di ricerca europei, sia pubblici che privati.
Nell’insieme essi dicono in sostanza, con equilibrio e ricchezza di dati, che
la mancanza di competitività dell’economia italiana è dovuta a serie debolezze
strutturali. La prima delle quali è che il 95% delle imprese italiane hanno
meno di 10 dipendenti, per cui non sono
in grado di fare né ricerca e sviluppo ad alto livello, né formazione del
personale.
2) Affermare che l’industria italiana non
soffre di declino, bensì si è trasformata, può significare almeno tre cose
diverse. Che certi settori dell’industria sono effettivamente scomparsi, però
(a) ne sono emersi altri che prima non
esistevano, o erano di peso modesto. Oppure (b) che uno stesso settore si è
differenziato al suo interno, e sebbene continui a venir designato con il
medesimo nome produce bene e servizi differenti rispetto a prima. Infine (c) la
stessa affermazione può voler dire che un intero settore o comparto
industriale, caratterizzato un tempo dalla presenza di poche grandi imprese, si è frazionato in gran numero
di imprese piccole e medie. In complesso
quel tale settore o comparto continuerebbero a prosperare, ma le dimensioni
delle sue principali imprese,
essendosi ridotte, fanno sì che il medesimo sia diventato
invisibile, o quasi, ai tradizionali metodi di misurazione delle attività
economiche.
Riguardo ai primi due modi di concepire le
trasformazioni dell’industria, le statistiche internazionali non offrono in
verità molti appigli per sostenere che l’industria italiana, indossate nuove
vesti, goda tuttora di buona salute. Si veda
il precitato elenco delle Global
1000, le prime mille società del mondo
classificate in base al loro valore di mercato, pubblicato ai primi di agosto
2004 da “Business Week”. La prima cosa che salta all’occhio in tale elenco è
che tra le prime 50 ben 36 sono società o gruppi industriali, e industriali
sono le prime quattro: General Electric, Microsoft, Exxon e Pfizer.
Il primo gruppo italiano in classifica è
l’Eni, al 37° posto, con un buon avanzamento rispetto al 2003 quando era 50°. Tra l’86° e il 105° posto si collocano
Enel, Tim e Telecom Italia (che però, dopo la incorporazione di Tim, appare in
posizione più alta nella analoga classifica del 2005). Dopodiché per trovare
altre imprese industriali italiane – mi riferisco sempre all’elenco di
“Business Week” dell’agosto 2004 - occorre scendere verso il 750° posto, dove
stanno fianco a fianco Edison e Luxottica. Saltando un altro centinaio di
scalini verso il basso si incontrano finalmente il gruppo Fiat (841°) e
Finmeccanica (850°, con un forte balzo all’ingiù perché nel 2003 l’analogo
rapporto la poneva al 669°). Queste imprese italiane sono strette, in tale
classifica, fra un folto gruppo di
corporations non appartenenti, parrebbe, ai primi paesi industriali del mondo.
Sono infatti imprese spagnole, canadesi, taiwanesi, tailandesi, messicane.
Che cosa si può ricavare dal suddetto
elenco a favore dell’ipotesi che l’industria italiana non declina,
bensì va trasformandosi? Piuttosto
poco. La sola novità – per quanto
significativa - è rappresentata dal gruppo
Luxottica, diventato il primo produttore mondiale di occhiali. Il suo valore di
mercato era al maggio 2004 più elevato del gruppo Fiat – 7,3 miliardi di
dollari rispetto a 6,4 - ma le sue vendite erano diciassette volte minori: 3,4 miliardi di dollari contro 57,7 nel
2003. In altre parole, ci vorrebbero in Italia altre diciassette novità come
Luxottica per pareggiare i volumi di vendita, e quelli correlati di produzione
e di occupazione diretta e indiretta, dell’ultimo grande gruppo manifatturiero
che esista ancora in Italia.
In sostanza, dall’elenco di “Business
Week” il quadro che si evince
dell’industria italiana a metà 2004 appariva così connotato: tolte le prime
quattro (Eni, Enel, Tim e Telecom Italia), le altre cinque si collocavano verso il fondo della
classifica, dietro a centinaia di società appartenenti a paesi più piccoli o
meno sviluppati dell’Italia. Per di più in una prospettiva comparata le imprese
industriali italiane erano scarse:
appena 9 sulle 23 società incluse nell’elenco, una minoranza, mentre quelle
britanniche sono 40 o più su 73, le
francesi 32-33 su 44, le tedesche 23 su 35.
Infine le nove imprese industriali italiane
producevano precisamente i beni ed i servizi descritti dalla loro ragione
sociale, più o meno come hanno fatto sin dalla nascita. Detto altrimenti,
esse non appaiono essersi trasformate
affatto, nel senso di avere costituito entro
di sé sotto-settori che a fronte di una crisi di lungo periodo delle
produzioni tradizionali assicurerebbero comunque la sopravvivenza e la crescita
del gruppo. Salvo voler considerare rivoluzionario il fatto che l’Enel abbia
una consociata telefonica, o salvifico per il gruppo Fiat avere acquisito delle
partecipazioni in campo energetico.
Che cosa resta dunque a sostenere l’ipotesi
che l’industria italiana “non declina ma si trasforma”? A suo favore si osserva
da varie parti che le imprese industriali italiane sono ormai quasi tutte delle
piccole-medie imprese, nessuna delle quali ha una stazza sufficiente per
entrare nell’elenco delle Global 1000 di “Business Week”, o in quelle simili
redatte annualmente da “Forbes”, “Fortune”, “Financial Times”, o Standard &
Poor’s. Il che equivale a dire che
l’industria italiana c’è, ed è solida, ma le sue unità hanno – volutamente e
felicemente - dimensioni troppo limitate per poter essere captate dalle grezze
lenti delle classifiche internazionali.
Da tale richiamo segue però una stravagante
implicazione. L’Italia sarebbe l’unico paese al mondo il quale insiste a
definirsi industriale non avendo più
imprese industriali che siano capaci di far ricerca e sviluppo su larga scala;
di reggere alla concorrenza internazionale grazie alla novità ed alla qualità
dei suoi prodotti, piuttosto che alla
compressione del costo del lavoro; e di mantenere in mano propria, piuttosto
che consegnare nelle mani di gruppi economici di altri paesi, i centri di
governo delle loro attività.
3) Negli ultimi due o tre anni si sono
susseguite notizie relative alla chiusura o al ridimensionamento di aziende o
stabilimenti controllati da
multinazionali straniere, con la perdita immediata o prevedibile per il
prossimo futuro, in complesso, di migliaia di posti di lavoro. Tra le decine di casi del genere si possono
ricordare l’Embraco nel torinese, controllata dall’americana Whirlpool; la Tecumseh, anch’essa in
Piemonte; le acciaierie del magnetico di
Terni controllate dalla tedesca ThyssenKrupp; stabilimenti della Zanussi in
diverse regioni facenti capo alla svedese Electrolux. Sono segnali di una situazione del tutto
anomala che caratterizza la nostra industria. L’Italia è infatti il solo paese
Ue in cui circa la metà dell’industria chimica; della farmaceutica;
dell’alimentare, dove la quota delle società straniere ha superato il 50% con
la recente acquisizione della Galbani da parte della francese Lactalis;
dell’elettrotecnica di gamma alta; degli elettrodomestici; della telefonia
mobile ecc. è controllata da imprese estere. Anche la siderurgia ha imboccato
tale strada, con la recente cessione delle acciaierie Lucchini ai russi della
Severstal.
Non mancano coloro che a fronte di tale
situazione avanzano rassicurazioni asserendo che quel che accade non è altro
che un effetto della globalizzazione,
ovvero della mondializzazione, come si preferisce dire in Francia. Gli
stabilimenti che chiudono in Italia per mano di gruppi che hanno sede
principale all’estero – si afferma - sono via via compensati da altri che
vengono aperti da imprese straniere. Queste ultime recano con sé sviluppo,
tecnologia, inserimento in più ampi circuiti dell’economia internazionale. Al proposito un economista è giunto a
scrivere che è meglio essere una colonia benestante piuttosto che un paese
indipendente ma povero. Nel contempo le
imprese italiane si andrebbero
consolidando, aprendo numerose unità produttive all’estero.
L’evidenza disponibile suggerisce, al
contrario, che l’Italia riceve dall’estero pochi investimenti, e ne effettua
ancor meno in altri paesi. Nel 2003 essa ha ricevuto appena 16,4 miliardi di
dollari di investimenti diretti all’estero (IDE), e ne ha effettuati la miseria
di 9,1. La Francia ne ha ricevuti quasi
tre volte tanti, 46,9 miliardi di dollari, e ne ha effettuati quattro volte di
più, cioè 57,2 miliardi. E con una popolazione quattro volte minore di quella
italiana l'Olanda ha largamente battuto la penisola nei flussi di IDE, sia in
entrata, con 19,6 miliardi di dollari, sia in uscita, con ben 36 miliardi.
Inoltre, come avviene da tempo, gli
investimenti ricevuti dall'Italia non sono stati in quasi nessun caso del tipo green field (“campo verde” o pré vert), i quali consistono nella apertura dal nulla di nuove unità produttive, con
relativa creazione di posti di lavoro addizionali. Sono consistiti
semplicemente nell'acquisto di aziende già in attività, con effetti minimi, e
talora negativi, sull'occupazione.
Sembrerebbe quindi che aver passato nelle
mani di imprese estere quasi metà dei suoi principali settori industriali abbia
portato in casa, all’Italia, il peggio della globalizzazione, cioè la
dipendenza da soggetti economici lontani e irresponsabili; un avvìo, in altre
parole, allo stato di un paese che rischia di essere, al tempo stesso, sia
colonizzato che povero.
4) Ad onta degli apologeti del
post-industriale e della società dei servizi, che a vero dire da qualche tempo
sembrano meno numerosi, l’industria
manifatturiera rappresenta tuttora, e continuerà ad essere nei prossimi
decenni, un settore assolutamente
centrale dell’economia contemporanea.
Chi insista sul fatto che l’occupazione nell’industria è scesa grosso
modo, ovviamente con notevoli variazioni da un paese all’altro, dal 30-35% al 15% in pochi decenni, e su questa base formula una diagnosi di scomparsa
dell’industria nei paesi sviluppati, è vittima per forse tre quarti di un
abbaglio statistico.
Un documento della Commissione Europea del
2002, avente per oggetto “La politica industriale in un’Europa allargata”,
coglieva bene il problema. In una sezione dedicata a “L’industria come fonte
della ricchezza in Europa” si leggeva infatti: “In anni recenti la struttura
produttiva europea ha subito notevoli trasformazioni. La quota del settore dei
servizi nella produzione dell’UE è passata dal 52% nel 1970 al 71% nel 2001,
mentre nello stesso periodo la quota dell’industria manifatturiera è diminuita
dal 30% al 18%.” … Per effetto di questa “terziarizzazione” i responsabili
politici non hanno riservato sufficiente attenzione all’industria
manifatturiera, sulla base della diffusa
ma erronea convinzione che nell’economia basata sulla conoscenza e nella
società dell’informazione e dei servizi l’industria manifatturiera non svolga
più un ruolo essenziale…(enfasi nel testo).”
Simile sottovalutazione del peso reale
dell’industria si deve al fatto che “le imprese manifatturiere – precisa il
documento della CE - hanno esternalizzato funzioni ritenute non essenziali, che
in precedenza erano calcolate come parte del settore manifatturiero. La sua
accresciuta domanda intermedia di servizi ha contribuito all’aumento della
produzione di servizi alle imprese, che nel 2000 rappresentavano il 48,3% del
Pil della Ue a 15.” A conti fatti, lungi
dal diminuire in conformità al teorema del post-industriale, tanto la quota
complessiva sul Pil del valore aggiunto
dell’industria manifatturiera e dei servizi alle imprese, che in gran
parte sono diretti proprio ad essa, quanto la quota complessiva
dell’occupazione nei due settori, sono
aumentati tra il 1991 e il 1999 nei paesi Ue: dal 66,4 al 68% per quanto
riguarda il valore aggiunto di manifattura e servizi all’imprese, e dal 57,9 al
58,4% per quanto attiene all’occupazione dei due settori sul totale degli
occupati.
Da tali dati ne segue che al centro di
qualsiasi politica industriale dovrebbero essere tuttora collocati i problemi
della industria manifatturiera. Quella appunto che in Italia rischia di
scomparire. Con possibile grave danno
anche per il settore dei servizi, visto che due terzi di essi sono
richiesti dall’industria.
Posto che il declino industriale dell’Italia
sembra davvero esistere, si tratta di vedere come si potrebbe uscirne. Un
primo passo dovrebbe consistere nel
farsi venire delle idee in tema di politica economica e industriale. Un secondo
passo, altrettanto indispensabile,
starebbe nel predisporre i mezzi per attuarle. E qui la strada si
presenta davvero impervia. Le idee al riguardo non nascono dal nulla. Nascono –
così accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna – da un dialogo
sistematico e permanente tra ministeri, enti territoriali, atenei, istituti di
ricerca scientifica e tecnologica pubblici e privati, sindacati, associazioni imprenditoriali,
unioni professionali.
E’ un dialogo diretto a far emergere quali
sono i punti di forza e di debolezza di un’economia, e quali sono gli spazi in
cui concentrare le risorse disponibili per avviare poli tecnologici e reti di
sviluppo con elevati livelli di integrazione verticale e orizzontale, ossia
interna ed esterna. Spiace dirlo, ma i duecento distretti industriali
italiani - sulle cui virtù miracolose sono
stati molti a
illudersi – al confronto con meraviglie industriali come il polo
aeronautico di Tolosa, la Optics Valley a sud-est di Parigi, o il distretto biotecnologico dell’area di
Monaco di Baviera, appaiono, forse con una dozzina scarsa di eccezioni, in
ritardo di vent’anni.
Qui si tocca un punto critico per una nuova
politica industriale. Probabilmente l’Italia non avrà mai più delle grandi
imprese con decine di migliaia di addetti, come aveva in passato. Ma poiché le
grandi imprese sono indispensabili per fare ricerca e sviluppo, per realizzare
economie di scala, per stabilire rapporti di partecipazione con imprese di peso
economico e tecnologico paragonabile, è necessario sviluppare delle imprese distribuite sul territorio, dove un
numero elevato di PMI operino come se fossero reparti o consociate di un
singolo gruppo economico, raggruppate in poli
tecnologici di rilevanti dimensioni.
Occorrerebbe pertanto far crescere in tale direzione un certo numero di
distretti italiani, selezionati tra quelli che presentano al riguardo le caratteristiche più idonee. Tali
sistemi produttivi dovrebbero rispondere a quattro condizioni principali: 1) un
polo tecnologico si costruisce sulla base di uno o più progetti tecnologici e
industriali di larga scala e a lungo termine, cui partecipano mediamente da
alcune decine a centinaia di attori collettivi differenti, concentrati in una
specifica area territoriale. 2) Il progetto o i progetti alla base di un
sistema produttivo centrato su tecnologie e processi industriali ad alto valore
aggiunto presuppone in ogni caso una scelta preliminare degli specifici settori
tecnologici in cui dovranno necessariamente rientrare. E’ qui dove l’Italia in
generale è più carente, come risulta anche da iniziative recenti del Ministero
delle Attività produttive e del Miur. Anziché scegliere i settori di
intervento, si propongono finanziamenti a pioggia, fidando nel mercato
affinché, in seguito, faccia emergere i più meritevoli. Mentre in Francia, con
un solo anno di preparazione, nell’ottobre 2005 sono stati creati 55 nuovi poli
tecnologici ciascuno dei quali è stato selezionato sulla base del progetto
preliminare presentato. 3) In un sistema produttivo innovativo debbono essere
obbligatoriamente presenti sin dall’inizio, in una relazione di effettiva
prossimità, almeno quattro tipi di attori: PMI, imprese sussidiarie di gruppi
multinazionali, società di servizi;
centri di ricerca e sviluppo pubblici e privati; enti di formazione,
dagli istituti professionali all’università; associazioni economiche e
professionali. E’ evidente che solo una
robusta politica industriale sarebbe capace di realizzare le suddette
condizioni.
Una simile politica industriale nel nostro
paese è assente non già perché manchino tecnici, scienziati, imprenditori e
lavoratori di prim’ordine, e nemmeno pubblici amministratori. Piuttosto perché
manca – per tornare al secondo passo che appare necessario allo scopo di uscire
dal declino – sia l’iniziativa che una idonea
strumentazione organizzativa da parte del governo e dello stato. Se mai
venissero elaborate, quelle tali idee di politica economica, avrebbero bisogno
di organi operativi per essere tradotte in realtà.
Ma quali ministeri potrebbero operare in
Italia a tale scopo, con i propri mezzi o inventando nuove forme di
organizzazione? Il ministero dell’Economia gestisce il patrimonio di cui lo
stato è ancora proprietario con lo spirito imprenditoriale di un amministratore
di condominio. Basti pensare alla vicenda Alitalia, alla cui crisi decennale il
ministero ha semplicemente assistito, anche quando controllava ancora il 100%
del capitale. Il ministero delle Attività Produttive si articola in ben 11
direzioni generali, di cui una sola, la
Direzione generale per lo sviluppo produttivo e competitività, include tra le sue competenze la “elaborazione
ed attuazione ed interventi di politiche industriali nazionali e
internazionali”, insieme con – letteralmente – decine di altre competenze.
Ancora nella vicina Francia si osserva invece come, a sottolineare l’importanza
che ad essa viene attribuita nell’organigramma ministeriale, la politica
industriale sia affidata a un ministro delegato, dei tre che in tutto
costituiscono, insieme con il ministro segretario di stato, il consiglio
direttivo del Ministère de l’Économie,
des Financeset – vedi caso - de l’Industrie.
Quanto al nostro ministero per l’Innovazione
Scientifica e Tecnologica, esso si occupa quasi esclusivamente di informatica,
una tecnologia certo di importanza primaria, se non fosse che ne esistono oggi decine di altre parimenti
importanti. Infine il ministero per l’Università e la Ricerca Scientifica e
Tecnologica appare impegnato in prevalenza a produrre norme e decreti, compresi
quelli che istituiscono per decreto distretti tecnologici che avranno forse un
brillante avvenire, ma per ora risultano formati da valenti quanto ristrette
pattuglie di ricercatori e di tecnici.
Una politica volta a rilanciare su nuove
basi la capacità industriale italiana dovrebbe dunque cominciare con una
profonda riforma della struttura e delle competenze dei ministeri. E forse
anche con l’istituzione di apposite agenzie per lo sviluppo di poli o reti di
competenza, tipo la Délégation à
l’aménagément du territoire et à l’action régionale costituita sin dal 1963
in Francia. Su questo punto, naturalmente, gli ostacoli sono politici, ben più
che economici. E gli interventi governativi per rilanciare la competitività di
cui si è finora parlato sembrano un placebo, più che l’energica cura di cui il
paese avrebbe bisogno. qui di seguito pubblichiamo il video della Relazione del Prof. Gallino al Convegno CRISI ECONOMICA,CRISI INDUSTRIALE, CRISI SOCIALE E I LAVORATORI Milano - 28 maggio 2009 organizzato dal Coordinamento Milanese di Solidarietà DALLA PARTE DEI LAVORATORI ( il video è stato pubblicato dalla CUB su www.youtube.com/watch?v=wzCEbwNvMQQ, insieme a tutti gli altri del Convegno)