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martedì 21 marzo 2017

SABATO 18 MARZO 2017 , E' MORTO PIERGIORGIO TIBONI FONDATORE DELLA FLMUNITI E DELLA CUB : il cordoglio del Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI"


Ciao Giorgio !

E' MORTO PIERGIORGIO TIBONI FONDATORE DELLA FLMUNITI E DELLA CUB : 

il Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI" esprime ai suoi familiari ed alla CUB il proprio profondo cordoglio.



Coordinamento Milanese di Solidarietà “DALLA PARTE DEI LAVORATORI”  (2004-2017)

Carissime/i ,
Il  Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI" esprime il proprio profondo cordoglio per la morte del Compagno Piergiorgio Tiboni e porge le proprie condoglianze ai familiari e a tutta la CUB per la grave perdita. 
La storia personale di Piergiorgio, che abbiamo avuto il piacere di conoscere e con cui abbiamo collaborato, e la sua vita di lotta e di onestà personale ed intellettuale, il suo incessante lavoro sindacale ed organizzativo a tutela degli sfruttati ed oprressi, sono l'eredità e l'esempio che i lavoratori italiani sapranno serbare ed utilizzare.
un abbraccio fraterno
p.il Coordinamento Milanese di Solidarietà “DALLA PARTE DEI LAVORATORI”
Carlo PARASCANDOLO 
Raffaele SBARRA 
Osvaldo PESCE 

in memoria di Pier Giorgio Tiboni, pubblichiamo qui di seguito il link del video della Relazione che lui tenne sul tema: <<CRISI ECONOMICA, CRISI INDUSTRIALE, CRISI SOCIALE E I LAVORATORI >> organizzato dal Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI">> a Milano il 28 maggio 2009 

https://youtube.com/watch?v=-8gEJraYJtI


giovedì 14 luglio 2016

Stati Uniti,superpotenza in crisi.Dopo i tragici fatti di Dallas (da pennabiro.it)

http://www.pennabiro.it/stati-unitisuperpotenza-crisi-tragici-fatti-dallas/ 

Stati Uniti,superpotenza in crisi.Dopo i tragici fatti di Dallas

di Osvaldo Pesce
I tragici fatti di Dallas sono avvenuti a pochi mesi dalle elezioni americane.Le elezioni presidenziali di novembre in USA sono particolarmente importanti, per i contenuti emersi nella campagna e il dibattito che hanno sollevato in una fase di grave crisi economica e sociale del paese. Il miliardario ‘politicamente scorretto’ Trump ha avuto facile successo nelle primarie contro dei candidati insulsi perché ha posto due temi chiave: il lavoro che manca e il deficit commerciale americano con la Cina, i paesi Opec e l’UE; gli avversari Sanders e Clinton hanno dovuto inseguirlo su questo terreno.
Wall Street è riuscita a trasferire la crisi finanziaria sull’Europa, mettendone a dura prova le banche e i debiti pubblici; ma la crisi è strutturale e globale e non si supera. Obama ha gestito gli interessi industriali (auto, shale oil and gas) e soprattutto ha finanziato le banche. Il loro salvataggio costò alla Fed dal 2007 al 2009 7.700 miliardi di dollari, metà del PIL, facendo guadagnare ad esse 13 miliardi, mentre quello della Chrysler, più o meno l’unico intervento pubblico nell’industria statunitense, costò solo 6 miliardi (Corriere 2.12.2011 e 30.3.2009). Quindi è chiaro che si butta denaro pubblico nelle banche molto più che nel salvare industrie, meno che mai nel sostenere i redditi dei lavoratori e delle minoranze.
La società americana è in declino: la povertà e la disoccupazione reale crescono, i conflitti sociali e razziali non sono affatto risolti (né coi lavoratori poveri, né con gli afroamericani né coi latinos), e questo è in drammatica evidenza dopo le uccisioni di neri, le proteste, il sanguinoso attacco di Dallas.
Interi quartieri sono abbandonati al degrado (e anche intere città, come New Orleans, devastata da Katrina, o Detroit dimezzata dalla crisi dell’auto). Dai dati di inizio 2015, il 39% dei lavoratori guadagna meno di 20.000 dollari (la soglia della povertà per una famiglia di 4 persone è 23.000 dollari): solo il 44% degli occupati lavora 30 o più ore settimanali; degli americani in età lavorativa 8,7milioni sono ufficialmente disoccupati e 92,9 milioni sono “non forza lavoro”(casalinghe, studenti, pensionati, militari, “forze di lavoro potenziali”, disoccupati da molto tempo).
Un quarto degli americani hanno più debiti del valore di quanto possiedono, il 47% della popolazione non può permettersi il pronto soccorso, 46 milioni di persone ricorrono ai banchi alimentari (ora proibiti in alcuni stati, Oklahoma, California ecc), un americano su sette rischia la fame. Chi vive nella precarietà economica abbandona l’auto non avendo 400 dollari per ripararla, perde la casa col mutuo che non riesce a pagare (e la sfascia prima di lasciarla alla banca); in California c’è gente che vive nelle aiole, a New York la polizia ha identificato 80 accampamenti di senzatetto ecc.
Lo 0,1% delle famiglie americane ha ricchezza pari a quella del 90%. Undici milioni di famiglie vivono e lavorano negli Stati Uniti illegalmente, un milione e mezzo vivono con meno di due dollari al giorno; nel 2015 un bambino su cinque usufruiva di buoni pasto e 2 milioni e mezzo vivevano in rifugi, per le strade, nelle macchine, o in campi senza alcuna tutela, a causa della povertà e delle violenze familiari. (lettera43, Avvenire 17.11.2014 ubiminor.org 27.11.2014)
La rabbia e l’opposizione crescono: secondo Pew Research per gli americani le misure del governo sono inefficaci per la classe media (72%) e le piccole imprese (68%), e hanno fatto fare “un grosso affare” alle grandi banche e alla finanza (52%).
Trump fa leva sulla mancanza di lavoro per propagandare il suo isolazionismo (“America first”) soprattutto verso i bianchi poveri e il ceto medio compresso verso il basso.Afferma che ci vuole più sicurezza, non si può lasciar entrare gli immigrati né dare la cittadinanza a chi nasce nel paese, va rafforzata la barriera col Messico;anche l’atto terroristico anti-gay a Orlando ha giovato alle sue sparate anti-islamici e a favore del libero commercio delle armiBisogna cambiare i rapporti con la Cina “anche a rischio di una guerra commerciale” e riportare a casa le industrie: “alle aziende che esportano la produzione in Messico dirò: metterò un dazio del 35% su ogni prodotto che venderete in America”. Ci si deve sganciare dagli impegni in Medio Oriente – “le nostre azioni in Iraq. Libia e Siria hanno aiutato l’Isis” – e sbarrare l’accesso ai musulmani. Ci vogliono più lavoro e salario con più esenzioni fiscali, tasse al 15% del reddito d’impresa grande o piccola che sia, più petrolio statunitense e niente tutela ambientale (” non si può distruggere la competitività delle fabbriche americane per prepararsi a un inesistente riscaldamento globale”), meno debito pubblico, niente tutele sanitarie e far contribuire gli alleati NATO ai costi della loro difesa.
Ai suoi comizi crescono le contestazioni degli avversari; è la prima volta che questo accade, finora avvenivano alle convention del proprio partito: si ricorda ancora quella alla convention democratica del 1968 a Chicago, dopo gli assassinii di Martin Luther King e di Robert Kennedy, contro Humphrey, la guerra nel Vietnam e il razzismo.
Hillary Clinton dichiara: “Nessuna banca è troppo grande per non fallire e nessun manager è troppo potente per non andare in prigione”, e si tira dietro ai comizi l’ex senatore Barney Frank, il coautore – dopo i disastri del 2008 – della riforma Dodd-Frank dei mercati finanziari (deregolamentati proprio da Bill Clinton); ma (su 120 milioni raccolti) alla fine di dicembre 2015 circa 21,4 milioni di dollari per la sua campagna elettorale provenivano da donazioni di hedge fund, banche, compagnie di assicurazione e altre società di servizi finanziari; in tutto, donatori di Wall Street e altre società finanziarie le hanno dato 44,1 milioni di dollari, più di un terzo del totale (gli speculatori George Soros e Donald Sussman le hanno versato rispettivamente 8 e 2,5 milioni, la sostiene anche il finanziere miliardario Warren Buffett).
Promette di opporsi a qualsiasi nuova tassa per le famiglie che guadagnano meno di 250 mila dollari l’anno, di volere un minimo salariale di 12 dollari l’ora, parità salariale tra uomini e donne, maggiori crediti d’imposta per le famiglie disagiate e diritto all’asilo nido per i figli dei lavoratori, di promuovere i diritti delle donne, delle minoranze, degli immigrati e dei gay, ma fatica a presentarsi come una donna comune, è troppo ricca e influente: ha incassato più di 3,7 milioni di dollari da discorsi a pagamento organizzati da banche e società finanziarie dal 2013 ad oggi (e il marito di Chelsea traffica in hedge fund, con clienti legati ai Rotschild e alla Goldman Sachs, la più potente banca d’affari).
L’anno scorso la stampa americana ha svelato che circa due milioni di dollari di fondi, raccolti dalla Fondazione Clinton sin dal 2001, venivano da donazioni di Arabia Saudita, Qatar, Kuwait e Oman, altri donatori erano Algeria, Brunei, gli Emirati; alla campagna di Hillary contribuiscono per 270 mila dollari lobbisti che da anni curano gli interessi di compagnie petrolifere, del gas e del carbone. Conseguentemente, è molto più interventista di Obama in Medio Oriente, e tace sul controverso oleodotto Keystone XL, che dovrebbe portare petrolio dal Canada verso le raffinerie americane: non intende abbandonare le fonti fossili (lo shale oil and gas) “ancora fondamentali per lo sviluppo, in particolare in alcune aree” né il nucleare.
Sanders invece promette pesanti tasse sulle attività finanziarie, una netta separazione tra banche commerciali e di investimento (cioè dedite alla speculazione), lo smantellamento delle assicurazioni sanitarie di Obama e l’abbassamento di prezzo dei farmaci per finanziare le cure mediche per tutti a carico dello Stato. Vuole salvaguardare il clima con una carbon tax e la moratoria nucleare. Il suo programma include la lotta alle diseguaglianze di reddito e ricchezza e un sistema di sicurezza sociale, la guerra come l’ultima opzione; l’istruzione universitaria gratuita, la creazione di lavoro pagato in proporzione alle necessità di una vita familiare dignitosa, alloggi a prezzi accessibili, sostegno all’economia rurale; una politica di immigrazione equa e una giustizia senza pregiudizi razziali, più potere ai nativi americani, tutela dei disabili e dei veterani, diritti ai gay e transessuali.
Ha detto: “prometto che sotto un’amministrazione Sanders non vedrete mai un ministro del Tesoro che viene dalla Goldman Sachs”, come fu Rubin sotto Bill Clinton. Non molla la campagna, sostenuto dai giovani, anche se ha metà dei delegati rispetto alla Clinton: ha rifiutato la richiesta di abbandonare fattagli da Obama e Hillary, vuole una convention divisa per combattere sul programma; è disposto a votare la Clinton solo per sbarrare la strada a Trump se diventasse davvero il candidato repubblicano per novembre. Si dichiara socialista, E’ stato eletto senatore da indipendente nelle liste democratiche, se gli sbarrano la strada, come è probabile, vorrebbe fare un partito nuovo della sinistra attraverso una ‘convenzione del popolo’.
La campagna è sempre più dura, con scontri fra i candidati e nelle piazze; fra i repubblicani Trump è a corto di fondi, e si troverà contro nuovi candidati che però dovranno affrontare i temi gettati in campo da lui; se sarà sconfitto potrebbe presentarsi come indipendente. Entrambe le convention saranno quindi combattute, chiunque sarà il vincitore dovrà esprimersi riguardo sia all’alta finanza, sia all’isolazionismo o meno, sia a politiche sociali, e chi infine sarà elettoPresidente dovrà tentare di rispondere al malcontento popolare emerso nelle piazze, ma di fatto il programma di governo sarà quello voluto dall’1% di straricchi e da Wall Street.
Da qui a novembre la strada è ancora lunga, potrebbero avvenire molti imprevedibili sviluppi, anche nelle relazioni internazionali: sono in gioco i rapporti con la Cina e il suo progetto di ‘nuova via della seta’; con i paesi del petrolio coinvolti dalle guerre e danneggiati dallo shale oil; i trattati economici con gli alleati in Europa e Asia sono in stallo (TTIP/TISA e TPP).Obama preme in tutti i modi sulla Unione Europea per la firma del TTIP prima delle elezioni della nuova presidenza.Negli Stati Uniti e qundi nel mondo niente sarà come prima.

martedì 24 maggio 2016

Belgio, Austerità «La misura è colma» : Bruxelles, scontri tra polizia e manifestanti al corteo anti-austerità. Lanci di pietre e bottiglie sugli agenti, che rispondono con spray al peperoncino. Diversi feriti al corteo di protesta contro le misure d’austerità del governo. (da corriere

da
http://www.corriere.it/esteri/16_maggio_24/duri-scontri-bruxelles-polizia-manifestanti-65e31fa4-21ad-11e6-91cf-0087f336776f.shtml

Lanci di pietre e bottiglie sugli agenti, che rispondono con spray al peperoncino
Diversi feriti al corteo di protesta contro le misure d’austerità del governo



Scontri a Bruxelles tra polizia e manifestanti al corteo di protesta contro l’austerità. Le forze dell’ordine hanno usato lacrimogeni e cannoni ad acqua per disperdere i dimostranti. Almeno due poliziotti e 8 manifestanti sono rimasti feriti negli scontri. Medicato sul posto e portato poi in ospedale anche il commissario di polizia responsabile per la sicurezza dell’evento Pierre Vandersmissen. Per la sua aggressione è stato fermato un 20enne incensurato. La manifestazione era stata indetta dai maggiori sindacati del paese contro l’innalzamento dell’età pensionabile, l’introduzione di maggiore flessibilità nel mercato del lavoro e l’allungamento dell’orario di lavoro da 38 a 45 ore settimanali. Nelle stesse ore del corteo, nella capitale belga, era in corso la riunione dell’Eurogruppo sulla crisi greca.

Migliaia in marcia: «La misura è colma»


Tra le 50 e le 60 mila persone secondo i dati della polizia locale e dei sindacati hanno marciato nel centro di Bruxelles per protestare contro le politiche sociali ed economiche del governo di centro-destra che, per i sindacati, minano in profondità le fondamenta del welfare in Belgio. Sotto lo slogan «La misura è colma», le principali sigle sindacali hanno aderito alla manifestazione unite nella loro opposizione contro le misure per aumentare la flessibilità sul posto di lavoro e le paghe inferiori in condizioni di lavoro più gravose. 
I sindacati lamentano che le politiche di libero mercato del centro-destra, portate avanti dal primo ministro liberale Charles Michel nel corso degli ultimi due anni, stanno costando a una famiglia media belga circa 100 euro al mese, mentre la promessa di molti posti di lavoro in più resta sfuggente. I sindacati chiedono invece che il governo affronti la piaga dell’evasione fiscale.

Durante la protesta, alcune decine di manifestanti a volto coperto si sono però staccati dalla manifestazione principale e hanno attaccato la polizia nei pressi della Gare du Midi a Bruxelles, con lancio di petardi e oggetti come pietre e bottiglie. Le forze dell’ordine hanno risposto caricando e usando un cannone ad acqua e spray al peperoncino. Dopo gli scontri la polizia ha deciso di chiudere due stazioni della metro e alcune tunnel.
24 maggio 2016 (modifica il 24 maggio 2016 | 18:31)
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Corriere della Sera

martedì 29 marzo 2016

Sparito il 15% delle campagne, agricoltori in piazza (dal sito coldiretti.it)

dal sito : http://www.coldiretti.it/

http://www.ilpuntocoldiretti.it/attualita/Pagine/Sparitoil15dellecampagneagricoltoriinpiazza.aspx

Sparito il 15% delle campagne, agricoltori in piazza 

L’Italia ha perso il 15 per cento delle campagne per effetto dell’abbandono e della cementificazione provocati da un modello di sviluppo sbagliato che ha causato la scomparsa di 2,6 milioni di ettari di terra coltivata negli ultimi 20 anni, pari ad almeno 400 campi da calcio al giorno. E’ quanto denuncia la Coldiretti in occasione del blitz di agricoltori e allevatori in città nel giorno tradizionalmente dedicato alle scampagnate per denunciare gli effetti delle profonda crisi che ha colpito settori importanti dell’agricoltura, con l’abbandono delle campagne e la chiusura delle stalle italiane.

Gli agricoltori della Coldiretti hanno scelto di occupare piazza Palazzo di Città nel pieno centro di Torino, la prima capitale d’Italia, per riaffermare il contributo dell’agricoltura al Paese proprio nel giorno in cui tradizionalmente milioni di cittadini apprezzano le bellezze delle campagne e gustano i prodotti della terra e dell’allevamento nei tradizionali picnic fuori porta. Una tradizione che rischia di sparire insieme a centinaia di migliaia di aziende agricole e allevamenti italiani sotto l’attacco delle politiche comunitarie e delle distorsioni di mercato.

“Senza campagna muoiono anche le città”, “agricoltura vuol dire cibo, ambiente e salute”, “Un prezzo etico e giusto per il latte”, Salviamo la fattoria Italia dalle speculazioni” sono alcuni degli slogan della mobilitazione con la distribuzione gratuita ai cittadini di formaggi e yogurt, rigorosamente Made in Italy ma anche l’offerta di consigli per fare scelte di acquisto consapevoli, a tutela della salute, dell’occupazione dell’economia e del territorio. Nella piazza è allestito il mercato degli agricoltori di campagna amica che hanno lasciato le proprie aziende per portare i prodotti della terra direttamente ai consumatori.

Il frutteto italiano  che si è ridotto di un terzo (-33 per cento) negli ultimi quindici anni con la scomparsa di oltre 140mila ettari di piante di mele, pere, pesche, arance, albicocche e altri frutti, che rischiano di far perdere all’Italia il primato europeo nella produzione di una delle componenti base della dieta mediterranea. La situazione non è migliore per le fattorie da dove sono scomparsi 2 milioni di animali tra mucche, maiali e pecore negli ultimi dieci anni con il pericolo di estinzione per le razze storiche e lo spopolamento delle aree interne e montane, ma a rischio c’è anche il primato dell’enogastronomia Made in Italy con la dipendenza dall’estero che per carne, salumi, latte formaggi che è vicina al 40%.
Minacciate di estinzione ben 130 razze allevate tra le quali ben 38 razze di pecore, 24 di bovini, 22 di capre, 19 di equini, 10 di maiali, 10 di avicoli e 7 di asini, sulla base dei Piani di Sviluppo Rurale della precedente programmazione. Ma in pericolo sono anche pezzi pregiati dell’enogastronomia nazionale che può contare sul primato mondiale con 49 formaggi a denominazione di origine protetta (Dop) riconosciuti dall’Unione Europea addirittura davanti alla Francia che ne possiede solo 45.

Sotto accusa la normativa comunitaria che consente di spacciare come Made in Italy prodotti importati dall’estero per la mancanza di norme chiare e trasparenti sull’etichettatura di origine. La mancanza di trasparenza in etichetta sulla reale origine colpisce salumi e formaggi ma anche il latte a lunga conservazione. Il risultato è che vengono spacciati come italiani prodotti di origine straniera con gli inganni del finto Made in Italy che riguarda due prosciutti su tre venduti come italiani, ma provenienti da maiali allevati all'estero, ma anche tre cartoni di latte a lunga conservazione su quattro che sono stranieri senza indicazione in etichetta come pure la metà delle mozzarelle.
Una concorrenza sleale che fa abbassare i prezzi riconosciuti ad agricoltori e allevatori italiani al di sotto dei costi di produzione e provoca la chiusura di aziende e stalle. Occorre cogliere l’opportunità per cambiare le norme comunitarie nel senso della trasparenza con un’azione sinergica tra Italia e Francia, alla quale è stata già concessa l’autorizzazione dalla Commissione europea per l’etichettatura di origine per i derivati del latte e della carne. Non è un caso che secondo la consultazione pubblica on line del Ministero che ha coinvolto 26.547 partecipanti sul sito del Mipaaf dal novembre 2014 a marzo 2015 l’89 per cento dei consumatori ritiene che la mancanza di etichettatura di origine possa essere ingannevole per i prodotti lattiero caseari e l’87% per le carni trasformate.

venerdì 4 marzo 2016

LOMBARDIA - CRISI, COLDIRETTI - PRANDINI: "MORATORIA SUI DEBITI PER SALVARE ALLEVAMENTI E POSTI DI LAVORO" (da LOMBARDIA.COLDIRETTI.IT)

http://www.lombardia.coldiretti.it/lombardia-crisi-prandini-moratoria-sui-debiti-per-salvare-allevamenti-e-posti-di-lavoro-.aspx?KeyPub=GP_CD_LOMBARDIA_HOME|CD_LOMBARDIA_HOME&Cod_Oggetto=87218798&subskintype=Detail

03/03/2016 - N.3903

LOMBARDIA - CRISI, PRANDINI: "MORATORIA SUI DEBITI PER SALVARE ALLEVAMENTI E POSTI DI LAVORO"

“Aziende chiuse e migliaia di posti di lavoro a rischio: è questo lo scenario peggiore che potremmo trovarci davanti se la crisi del comparto zootecnico continuerà con questa violenza e se non ci sarà almeno una moratoria dei debiti con le banche” afferma Ettore Prandini, vice presidente nazionale di Coldiretti e Presidente di Coldiretti Lombardia, di fronte al crollo dei prezzi alla produzione che sta colpendo in particolare gli allevamenti bovini da latte e da carne e quelli suini.

In Lombardia – spiega la Coldiretti regionale -  sono oltre 20 mila le realtà del settore, di cui quasi 5 mila impegnate in un comparto come quello del latte che contribuisce al 40% di tutta la produzione nazionale. Sul fronte del credito, quello agrario in Lombardia vale oltre 8 miliardi e mezzo di euro con quasi il 71% su operazioni di lungo periodo per investimenti e sviluppo. Negli ultimi 5 anni però – stima Coldiretti Lombardia – almeno il 10% delle aziende che hanno rapporti di credito bancario hanno valutato o richiesto l’allungamento del periodo di ammortamento del finanziamento, per gestire meglio equilibri di bilancio messi sempre più a rischio dalla crisi dei prezzi alla stalla.

“Ma con la situazione che si sta creando – afferma Prandini - occorre una moratoria sui mutui, un impegno straordinario sui fondi di garanzia e un’azione a livello europeo per affrontare una crisi dei prezzi che non è solo italiana ma che riguarda anche gli agricoltori tedeschi e francesi. Senza dimenticare il nodo strategico di una norma europea per l’etichettatura d’origine che non si limiti allo stabilimento di produzione ma che vada a identificare le materie prime”.

martedì 10 novembre 2015

Luciano Gallino , relazione SUL DECLINO INDUSTRIALE E SUI MODI PER USCIRNE al Convegno tenutosi a Milano il 23 febbraio 2006 e Relazione del Prof. Gallino al Convegno CRISI ECONOMICA,CRISI INDUSTRIALE, CRISI SOCIALE E I LAVORATORI Milano - 28 maggio 2009 organizzati dal Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI"

in memoria del Prof. Luciano Gallino, pubblichiamo qui di seguito la Relazione da lui tenuta sul tema: "SUL DECLINO INDUSTRIALE E SUI MODI PER USCIRNE" al Convegno organizzato dal Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI" a Milano il 23 febbraio 2006  e il video della Relazione da lui tenuta sul tema: "CRISI ECONOMICA, CRISI INDUSTRIALE, CRISI SOCIALE E I LAVORATORI organizzato dal Coordinamento Milanese di Solidarietà "DALLA PARTE DEI LAVORATORI" a Milano il 28 maggio 2009 


"Un progetto per rispondere al declino industriale,
alla crisi occupazionale,all'attacco al mondo del lavoro"

Convegno tenutosi a Milano il 23 febbraio 2006
Sala Auditorium 1S – Consiglio Regionale della Lombardia

Prof. Luciano GALLINO
Professore Emerito di Sociologia
Università di Torino

SUL DECLINO INDUSTRIALE E SUI MODI PER USCIRNE

In  tema di declino industriale dell’Italia circolano da tempo, nei media ma anche nella letteratura specialistica,  varie affermazioni che si possono compendiare come segue: 1) Il declino, in realtà, non esiste; 2) quel che sembra un declino è, semmai, una trasformazione del sistema produttivo nazionale; 3) il fatto che  l’industria italiana sia per metà in mani straniere non è un segno di declino: l’importante è che la produzione continui a svolgersi nel nostro paese; 4) anche se l’industria manifatturiera dovesse scomparire non importa: il futuro appartiene ai servizi.

Per ciascuna di tali affermazioni esporrò sinteticamente le ragioni per cui mi pare che esse non poggino su basi solide, ovvero siano idee ricevute.  Da ultimo dirò perché, a mio giudizio, le proposte delineate finora in sede governativa per contrastare il declino e rilanciare la competitività sfiorano appena, in pratica, la superficie del problema.

1) Tra i segni di declino che non si possono ignorare vanno collocati la crescita esigua del Pil, che dopo essere stata minima per anni è passata al negativo nel quarto trimestre 2004 (- 0,4%) e nel primo trimestre 2005 ( - 0,5 secondo l’Istat, - 0,6 secondo l’Ocse), per riportarsi a fine anno vero lo zero;  la stagnazione o la diminuzione della produzione industriale in quasi tutti i principali comparti, in media – 0,5 al trimestre;   la diminuzione in un decennio di oltre un punto e  mezzo della quota italiana delle esportazioni nel mondo, dal 4,6 al 3% in termini reali.

Parecchi altri indicatori sono disponibili. Ad esempio, tra le 2000 società più importanti del mondo classificate secondo un indice che combina vendite, utili e valore in borsa, pubblicata da “Forbes” nel maggio 2005, l’Italia vi compariva con sole 45 società, contro le 63 della Germania, le 62 della Francia e le 140 del Regno Unito. Per tacere di paesi che hanno tra un quarto e un ottavo della nostra popolazione - Olanda, Svezia, Svizzera – e però erano presenti nello stesso gruppo con un numero di gruppi economici di poco inferiore al nostro. La  Svizzera, per dire, con i suoi sette milioni di abitanti, portava in detta classifica ben 37 società. Parecchie delle quali, si noti, sono grandi gruppi industriali.

Nello stesso senso depongono le serie storiche. “Business Week” pubblica ogni anno un’altra classifica, quella delle Global 1000, ordinate in questo caso per valore di mercato. In essa si scopre che nel 2000 le società italiane erano presenti in 31; nella edizione aggiornata al maggio 2004 erano scese a 23. Tra  queste i gruppi  industriali  erano in minoranza, e molti si situavano intorno al 750° posto o al disotto. In tale posizione si trovavano Edison, Luxottica, Fiat e Finmeccanica.

Sempre da un punto di vista storico o diacronico va ricordato che negli ultimi lustri sono scomparsi, o  sono vistosamente deperiti, interi settori industriali, senza che nessun altro sia emerso di dimensioni sufficienti a compensare il loro peso nell’insieme dell’economia. A causa delle “guerre chimiche” degli anni ’70 e ’80, che hanno visto via via come protagonisti Montecatini, Montedison, Enichem ecc., è scomparsa in Italia la grande industria chimica. La produzione in grande serie  di personal computer, nella quale la Olivetti aveva occupato posizioni di leader europeo dopo essere stata la prima al mondo a lanciarli sul mercato – nel lontano 1965 -   è cessata formalmente nel 1997. Per fortuna l’industria automobilistica, che in Italia vuol dire soltanto Fiat, appare oggi emergere dalla crisi, ma va ricordato che al presente si batte per riconquistare il 7% del mercato europeo, laddove un decennio fa si batteva per mantenere  quota 18%. 

Per documentarsi sul declino industriale sono inoltre disponibili gran numero di rapporti sullo stato della economia italiana che escono da centri di ricerca europei, sia pubblici che privati. Nell’insieme essi dicono in sostanza, con equilibrio e ricchezza di dati, che la mancanza di competitività dell’economia italiana è dovuta a serie debolezze strutturali. La prima delle quali è che il 95% delle imprese italiane hanno meno di 10 dipendenti,  per cui non sono in grado di fare né ricerca e sviluppo ad alto livello, né formazione del personale.

2) Affermare che l’industria italiana non soffre di declino, bensì si è trasformata, può significare almeno tre cose diverse. Che certi settori dell’industria sono effettivamente scomparsi, però (a)  ne sono emersi altri che prima non esistevano, o erano di peso modesto. Oppure (b) che uno stesso settore si è differenziato al suo interno, e sebbene continui a venir designato con il medesimo nome produce bene e servizi differenti rispetto a prima. Infine (c) la stessa affermazione può voler dire che un intero settore o comparto industriale, caratterizzato un tempo dalla presenza di poche  grandi imprese, si è frazionato in gran numero di imprese piccole e medie. In  complesso quel tale settore o comparto continuerebbero a prosperare, ma le dimensioni delle sue principali  imprese, essendosi  ridotte,  fanno sì che il medesimo sia diventato invisibile, o quasi, ai tradizionali metodi di misurazione delle attività economiche.

Riguardo ai primi due modi di concepire le trasformazioni dell’industria, le statistiche internazionali non offrono in verità molti appigli per sostenere che l’industria italiana, indossate nuove vesti, goda tuttora di buona salute. Si veda  il precitato  elenco delle Global 1000, le prime  mille società del mondo classificate in base al loro valore di mercato, pubblicato ai primi di agosto 2004 da “Business Week”. La prima cosa che salta all’occhio in tale elenco è che tra le prime 50 ben 36 sono società o gruppi industriali, e industriali sono le prime quattro: General Electric, Microsoft, Exxon e Pfizer.

Il primo gruppo italiano in classifica è l’Eni, al 37° posto, con un buon avanzamento rispetto al 2003 quando era  50°. Tra l’86° e il 105° posto si collocano Enel, Tim e Telecom Italia (che però, dopo la incorporazione di Tim, appare in posizione più alta nella analoga classifica del 2005). Dopodiché per trovare altre imprese industriali italiane – mi riferisco sempre all’elenco di “Business Week” dell’agosto 2004 - occorre scendere verso il 750° posto, dove stanno fianco a fianco Edison e Luxottica. Saltando un altro centinaio di scalini verso il basso si incontrano finalmente il gruppo Fiat (841°) e Finmeccanica (850°, con un forte balzo all’ingiù perché nel 2003 l’analogo rapporto la poneva al 669°). Queste imprese italiane sono strette, in tale classifica,  fra un folto gruppo di corporations non appartenenti, parrebbe, ai primi paesi industriali del mondo. Sono infatti imprese spagnole, canadesi, taiwanesi, tailandesi, messicane. 

Che cosa si può ricavare dal  suddetto  elenco a favore dell’ipotesi che l’industria italiana non declina, bensì  va trasformandosi? Piuttosto poco.   La sola novità – per quanto significativa -  è rappresentata dal gruppo Luxottica, diventato il primo produttore mondiale di occhiali. Il suo valore di mercato era al maggio 2004 più elevato del gruppo Fiat – 7,3 miliardi di dollari rispetto a 6,4 - ma le sue vendite erano diciassette volte minori: 3,4 miliardi di dollari contro 57,7 nel 2003. In altre parole, ci vorrebbero in Italia altre diciassette novità come Luxottica per pareggiare i volumi di vendita, e quelli correlati di produzione e di occupazione diretta e indiretta, dell’ultimo grande gruppo manifatturiero che esista ancora  in Italia.

In sostanza, dall’elenco di “Business Week”  il quadro che si evince dell’industria italiana a metà 2004 appariva così connotato: tolte le prime quattro (Eni, Enel, Tim e Telecom Italia), le altre  cinque si collocavano verso il fondo della classifica, dietro a centinaia di società appartenenti a paesi più piccoli o meno sviluppati dell’Italia. Per di più in una prospettiva comparata le imprese industriali italiane erano  scarse: appena 9 sulle 23 società incluse nell’elenco, una minoranza, mentre quelle britanniche sono 40 o più su 73, le  francesi 32-33 su 44, le tedesche 23 su 35.
Infine le nove imprese industriali italiane producevano precisamente i beni ed i servizi descritti dalla loro ragione sociale, più o meno come hanno fatto sin dalla nascita. Detto altrimenti, esse  non appaiono essersi trasformate affatto, nel senso di avere costituito entro  di sé sotto-settori che a fronte di una crisi di lungo periodo delle produzioni tradizionali assicurerebbero comunque la sopravvivenza e la crescita del gruppo. Salvo voler considerare rivoluzionario il fatto che l’Enel abbia una consociata telefonica, o salvifico per il gruppo Fiat avere acquisito delle partecipazioni in campo energetico.

Che cosa resta dunque a sostenere l’ipotesi che l’industria italiana “non declina ma si trasforma”? A suo favore si osserva da varie parti che le imprese industriali italiane sono ormai quasi tutte delle piccole-medie imprese, nessuna delle quali ha una stazza sufficiente per entrare nell’elenco delle Global 1000 di “Business Week”, o in quelle simili redatte annualmente da “Forbes”, “Fortune”, “Financial Times”, o Standard & Poor’s. Il che equivale  a dire che l’industria italiana c’è, ed è solida, ma le sue unità hanno – volutamente e felicemente - dimensioni troppo limitate per poter essere captate dalle grezze lenti delle classifiche internazionali.
Da tale richiamo segue però una stravagante implicazione. L’Italia sarebbe l’unico paese al mondo il quale insiste a definirsi  industriale non avendo più imprese industriali che siano capaci di far ricerca e sviluppo su larga scala; di reggere alla concorrenza internazionale grazie alla novità ed alla qualità dei suoi prodotti,  piuttosto che alla compressione del costo del lavoro; e di mantenere in mano propria, piuttosto che consegnare nelle mani di gruppi economici di altri paesi, i centri di governo delle loro attività.

3) Negli ultimi due o tre anni si sono susseguite notizie relative alla chiusura o al ridimensionamento di aziende o stabilimenti  controllati da multinazionali straniere, con la perdita immediata o prevedibile per il prossimo futuro, in complesso, di migliaia di posti di lavoro.  Tra le decine di casi del genere si possono ricordare l’Embraco nel torinese, controllata dall’americana  Whirlpool; la Tecumseh, anch’essa in Piemonte;  le acciaierie del magnetico di Terni controllate dalla tedesca ThyssenKrupp; stabilimenti della Zanussi in diverse regioni facenti capo alla svedese Electrolux.   Sono segnali di una situazione del tutto anomala che caratterizza la nostra industria. L’Italia è infatti il solo paese Ue in cui circa la metà dell’industria chimica; della farmaceutica; dell’alimentare, dove la quota delle società straniere ha superato il 50% con la recente acquisizione della Galbani da parte della francese Lactalis; dell’elettrotecnica di gamma alta; degli elettrodomestici; della telefonia mobile ecc. è controllata da imprese estere. Anche la siderurgia ha imboccato tale strada, con la recente cessione delle acciaierie Lucchini ai russi della Severstal.

Non mancano coloro che a fronte di tale situazione avanzano rassicurazioni asserendo che quel che accade non è altro che un effetto  della globalizzazione, ovvero della mondializzazione, come si preferisce dire in Francia. Gli stabilimenti che chiudono in Italia per mano di gruppi che hanno sede principale all’estero – si afferma - sono via via compensati da altri che vengono aperti da imprese straniere. Queste ultime recano con sé sviluppo, tecnologia, inserimento in più ampi circuiti dell’economia internazionale.  Al proposito un economista è giunto a scrivere che è meglio essere una colonia benestante piuttosto che un paese indipendente ma povero. Nel  contempo le imprese italiane  si andrebbero consolidando, aprendo numerose unità produttive all’estero.

L’evidenza disponibile suggerisce, al contrario, che l’Italia riceve dall’estero pochi investimenti, e ne effettua ancor meno in altri paesi. Nel 2003 essa ha ricevuto appena 16,4 miliardi di dollari di investimenti diretti all’estero (IDE), e ne ha effettuati la miseria di 9,1.  La Francia ne ha ricevuti quasi tre volte tanti, 46,9 miliardi di dollari, e ne ha effettuati quattro volte di più, cioè 57,2 miliardi. E con una popolazione quattro volte minore di quella italiana l'Olanda ha largamente battuto la penisola nei flussi di IDE, sia in entrata, con 19,6 miliardi di dollari, sia in uscita, con ben 36 miliardi.
Inoltre, come avviene da tempo, gli investimenti ricevuti dall'Italia non sono stati in quasi nessun caso del tipo green field (“campo verde” o pré vert), i quali  consistono nella apertura  dal nulla di nuove unità produttive, con relativa creazione di posti di lavoro addizionali. Sono consistiti semplicemente nell'acquisto di aziende già in attività, con effetti minimi, e talora negativi, sull'occupazione.

Sembrerebbe quindi che aver passato nelle mani di imprese estere quasi metà dei suoi principali settori industriali abbia portato in casa, all’Italia, il peggio della globalizzazione, cioè la dipendenza da soggetti economici lontani e irresponsabili; un avvìo, in altre parole, allo stato di un paese che rischia di essere, al tempo stesso, sia colonizzato che povero.

4) Ad onta degli apologeti del post-industriale e della società dei servizi, che a vero dire da qualche tempo sembrano meno numerosi,  l’industria manifatturiera rappresenta tuttora, e continuerà ad essere nei prossimi decenni,  un settore assolutamente centrale dell’economia contemporanea.  Chi insista sul fatto che l’occupazione nell’industria è scesa grosso modo, ovviamente con notevoli variazioni da un paese all’altro,  dal 30-35% al 15% in pochi decenni, e su  questa base formula una diagnosi di scomparsa dell’industria nei paesi sviluppati, è vittima per forse tre quarti di un abbaglio statistico.

Un documento della Commissione Europea del 2002, avente per oggetto “La politica industriale in un’Europa allargata”, coglieva bene il problema.  In una  sezione dedicata a “L’industria come fonte della ricchezza in Europa” si leggeva infatti: “In anni recenti la struttura produttiva europea ha subito notevoli trasformazioni. La quota del settore dei servizi nella produzione dell’UE è passata dal 52% nel 1970 al 71% nel 2001, mentre nello stesso periodo la quota dell’industria manifatturiera è diminuita dal 30% al 18%.” … Per effetto di questa “terziarizzazione” i responsabili politici non hanno riservato sufficiente attenzione all’industria manifatturiera, sulla base della diffusa ma erronea convinzione che nell’economia basata sulla conoscenza e nella società dell’informazione e dei servizi l’industria manifatturiera non svolga più un ruolo essenziale…(enfasi nel testo).”

Simile sottovalutazione del peso reale dell’industria si deve al fatto che “le imprese manifatturiere – precisa il documento della CE - hanno esternalizzato funzioni ritenute non essenziali, che in precedenza erano calcolate come parte del settore manifatturiero. La sua accresciuta domanda intermedia di servizi ha contribuito all’aumento della produzione di servizi alle imprese, che nel 2000 rappresentavano il 48,3% del Pil della Ue a 15.” A conti  fatti, lungi dal diminuire in conformità al teorema del post-industriale, tanto la quota complessiva sul Pil del valore aggiunto  dell’industria manifatturiera e dei servizi alle imprese, che in gran parte sono diretti proprio ad essa, quanto la quota complessiva dell’occupazione nei due settori, sono aumentati tra il 1991 e il 1999 nei paesi Ue: dal 66,4 al 68% per quanto riguarda il valore aggiunto di manifattura e servizi all’imprese, e dal 57,9 al 58,4% per quanto attiene all’occupazione dei due settori sul totale degli occupati.

Da tali dati ne segue che al centro di qualsiasi politica industriale dovrebbero essere tuttora collocati i problemi della industria manifatturiera. Quella appunto che in Italia rischia di scomparire. Con possibile grave danno  anche per il settore dei servizi, visto che due terzi di essi sono richiesti dall’industria.

Posto che il declino industriale dell’Italia sembra davvero esistere, si tratta di vedere come si potrebbe uscirne. Un primo  passo dovrebbe consistere nel farsi venire delle idee in tema di politica economica e industriale. Un secondo passo, altrettanto indispensabile,  starebbe nel predisporre i mezzi per attuarle. E qui la strada si presenta davvero impervia. Le idee al riguardo non nascono dal nulla. Nascono – così accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna – da un dialogo sistematico e permanente tra ministeri, enti territoriali, atenei, istituti di ricerca scientifica e tecnologica pubblici e privati,   sindacati, associazioni imprenditoriali, unioni professionali.
E’ un dialogo diretto a far emergere quali sono i punti di forza e di debolezza di un’economia, e quali sono gli spazi in cui concentrare le risorse disponibili per avviare poli tecnologici e reti di sviluppo con elevati livelli di integrazione verticale e orizzontale, ossia interna ed esterna. Spiace dirlo, ma i duecento distretti industriali italiani  - sulle cui virtù miracolose sono stati  molti  a   illudersi – al confronto con meraviglie industriali come il polo aeronautico di Tolosa, la Optics Valley a sud-est di Parigi,  o il distretto biotecnologico dell’area di Monaco di Baviera, appaiono, forse con una dozzina scarsa di eccezioni, in ritardo di vent’anni.

Qui si tocca un punto critico per una nuova politica industriale. Probabilmente l’Italia non avrà mai più delle grandi imprese con decine di migliaia di addetti, come aveva in passato. Ma poiché le grandi imprese sono indispensabili per fare ricerca e sviluppo, per realizzare economie di scala, per stabilire rapporti di partecipazione con imprese di peso economico e tecnologico paragonabile, è necessario sviluppare delle imprese distribuite sul territorio, dove un numero elevato di PMI operino come se fossero reparti o consociate di un singolo gruppo economico, raggruppate in poli tecnologici di rilevanti dimensioni.  Occorrerebbe pertanto far crescere in tale direzione un certo numero di distretti italiani, selezionati tra quelli che presentano al  riguardo le caratteristiche più idonee. Tali sistemi produttivi dovrebbero rispondere a quattro condizioni principali: 1) un polo tecnologico si costruisce sulla base di uno o più progetti tecnologici e industriali di larga scala e a lungo termine, cui partecipano mediamente da alcune decine a centinaia di attori collettivi differenti, concentrati in una specifica area territoriale. 2) Il progetto o i progetti alla base di un sistema produttivo centrato su tecnologie e processi industriali ad alto valore aggiunto presuppone in ogni caso una scelta preliminare degli specifici settori tecnologici in cui dovranno necessariamente rientrare. E’ qui dove l’Italia in generale è più carente, come risulta anche da iniziative recenti del Ministero delle Attività produttive e del Miur. Anziché scegliere i settori di intervento, si propongono finanziamenti a pioggia, fidando nel mercato affinché, in seguito, faccia emergere i più meritevoli. Mentre in Francia, con un solo anno di preparazione, nell’ottobre 2005 sono stati creati 55 nuovi poli tecnologici ciascuno dei quali è stato selezionato sulla base del progetto preliminare presentato. 3) In un sistema produttivo innovativo debbono essere obbligatoriamente presenti sin dall’inizio, in una relazione di effettiva prossimità, almeno quattro tipi di attori: PMI, imprese sussidiarie di gruppi multinazionali, società di servizi;  centri di ricerca e sviluppo pubblici e privati; enti di formazione, dagli istituti professionali all’università; associazioni economiche e professionali.  E’ evidente che solo una robusta politica industriale sarebbe capace di realizzare le suddette condizioni.

Una simile politica industriale nel nostro paese è assente non già perché manchino tecnici, scienziati, imprenditori e lavoratori di prim’ordine, e nemmeno pubblici amministratori. Piuttosto perché manca – per tornare al secondo passo che appare necessario allo scopo di uscire dal declino – sia l’iniziativa che una idonea  strumentazione organizzativa da parte del governo e dello stato. Se mai venissero elaborate, quelle tali idee di politica economica, avrebbero bisogno di organi operativi per essere tradotte in realtà.
Ma quali ministeri potrebbero operare in Italia a tale scopo, con i propri mezzi o inventando nuove forme di organizzazione? Il ministero dell’Economia gestisce il patrimonio di cui lo stato è ancora proprietario con lo spirito imprenditoriale di un amministratore di condominio. Basti pensare alla vicenda Alitalia, alla cui crisi decennale il ministero ha semplicemente assistito, anche quando controllava ancora il 100% del capitale. Il ministero delle Attività Produttive si articola in ben 11 direzioni generali, di cui una  sola, la Direzione generale per lo sviluppo produttivo e competitività,  include tra le sue competenze la “elaborazione ed attuazione ed interventi di politiche industriali nazionali e internazionali”, insieme con – letteralmente – decine di altre competenze. Ancora nella vicina Francia si osserva invece come, a sottolineare l’importanza che ad essa viene attribuita nell’organigramma ministeriale, la politica industriale sia affidata a un ministro delegato, dei tre che in tutto costituiscono, insieme con il ministro segretario di stato, il consiglio direttivo del Ministère de l’Économie, des Finances et – vedi caso - de l’Industrie.

Quanto al nostro ministero per l’Innovazione Scientifica e Tecnologica, esso si occupa quasi esclusivamente di informatica, una tecnologia certo di importanza primaria, se non fosse che  ne esistono oggi decine di altre parimenti importanti. Infine il ministero per l’Università e la Ricerca Scientifica e Tecnologica appare impegnato in prevalenza a produrre norme e decreti, compresi quelli che istituiscono per decreto distretti tecnologici che avranno forse un brillante avvenire, ma per ora risultano formati da valenti quanto ristrette pattuglie di ricercatori e di tecnici.



Una politica volta a rilanciare su nuove basi la capacità industriale italiana dovrebbe dunque cominciare con una profonda riforma della struttura e delle competenze dei ministeri. E forse anche con l’istituzione di apposite agenzie per lo sviluppo di poli o reti di competenza, tipo la Délégation à l’aménagément du territoire et à l’action régionale costituita sin dal 1963 in Francia. Su questo punto, naturalmente, gli ostacoli sono politici, ben più che economici. E gli interventi governativi per rilanciare la competitività di cui si è finora parlato sembrano un placebo, più che l’energica cura di cui il paese avrebbe bisogno.

qui di seguito pubblichiamo il video della

Relazione del Prof. Gallino al Convegno 

CRISI ECONOMICA,CRISI INDUSTRIALE, 

CRISI SOCIALE E I LAVORATORI 

Milano - 28 maggio 2009 
organizzato dal Coordinamento Milanese di Solidarietà DALLA PARTE DEI LAVORATORI 
( il video è stato pubblicato dalla CUB su www.youtube.com/watch?v=wzCEbwNvMQQ, insieme a tutti gli altri del Convegno)





https://youtu.be/wzCEbwNvMQQ